Farmaci generici, i medici italiani ne sanno poco

17 settembre 2015
Aggiornamenti e focus

Farmaci generici, i medici italiani ne sanno poco



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Ha sollevato un problema inaspettato Paola Brusa, docente di Tecnologia e legislazione farmaceutiche presso l'Università di Torino, nel corso della recente presentazione del rapporto realizzato per conto di Assogenerici sui farmaci equivalenti. L'analisi, presentata da poco, ha avuto l'obiettivo di indagare il funzionamento del sistema dei farmaci generici in Italia e di individuare elementi di base per uno sviluppo del comparto per la fase di crescita del Paese.

Sembra strano, ma quando si tratta di farmaci generici, i medici sono decisamente poco preparati. La constatazione è frutto dell'esperienza "sul campo" della professoressa, quale docente durante i corsi di formazione che tiene in Piemonte rivolti anche alla classe medica.

«La domanda che mi viene posta con maggiore frequenza è quella relativa al principio attivo», interviene l'esperta. «Mi chiedono se è vero che nell'equivalente il principio attivo è pari alla metà rispetto a quanto contenuto nel farmaco originator». È un quesito, questo, che stride ancora di più, se si pensa che il Piemonte è il fiore all'occhiello della Sanità italiana per quanto riguarda il consumo di farmaci generici.
«La Regione ha invitato i medici a prediligere l'equivalente quando possibile, ai fini di dare respiro al Servizio sanitario nazionale», spiega Brusa. «E questo in parte è stato fatto. Ma la strada è ancora lunga, perché manca la cultura su questi medicinali, a differenza di quanto accade in altre nazioni».

Ancora oggi, ci racconta l'esperta, il paziente considera il generico un farmaco di serie B. E forte di questa sua convinzione, chiede ed esige dal medico curante il medicinale di marca, con tutto ciò che ne consegue per quanto riguarda i costi, portando anche a riprova le sue esperienze personali. Spesso infatti è talmente radicata l'idea che l'azione del generico sia pari a quella dell'acqua fresca, ovvero nulla, da provocare una mancata guarigione. Cosa che non accadrebbe se il medico fosse maggiormente informato sul tema.

Eppure la soluzione per ribaltare questa situazione sarebbe semplice, ed è la proposta lanciata dalla professoressa sempre nel corso del suo intervento e indirizzata alla Società scientifica di farmacologia e alla Federazione nazionale dell'ordine dei medici. «La mancata conoscenza riguarda anche le nuove leve», continua l'esperta. «Questo a conferma che bisogna risalire a monte dell'iter di formazione del medico, cioè all'università. Purtroppo nell'ambito dei corsi di studi non esistono sessioni dedicate alle molecole e alla composizione di un farmaco originator e del suo corrispettivo generico. Nessuno spiega che gli equivalenti sono spesso prodotti dalle aziende di quelli già in commercio. Per questo, bisognerebbe proporre all'Università di inserire almeno mezzo credito formativo obbligatorio su questo concetto».

All'Università, ma anche nell'ambito dei corsi di aggiornamento e dei convegni, bisognerebbe anche dare il via a una vera e propria campagna per modificare le terminologie. «Per far capire il concetto porto sempre come esempio la borsa, intesa come accessorio», dice Brusa. «Nessuna ne acquisterebbe una taroccata, se ci fosse la possibilità di acquistare lo stesso modello, ma di marca, più o meno allo stesso prezzo. La medesima cosa accade coi generici. I medici, ma in questo caso anche i farmacisti, utilizzano il termine "originali", dall'inglese "originator", oppure "di marca", o ancora "brand". Ma è sbagliato. È un linguaggio trasversale che danneggia, perché d'istinto viene da pensare che il generico invece sia un farmaco falso».

Le conseguenze di questo uso improprio di termini, unito alle mal conoscenze sulla natura dell'equivalente, sono sotto gli occhi di tutti. In Italia, come dimostrano i dati dell'ultimo rapporto Osmed dell'Aifa, l'Agenzia italiana del farmaco, solo il 12 per cento dei farmaci dispensati è generico. Nei mercati farmaceutici dei più grandi Paesi europei, invece, gli equivalenti rappresentano in media il 50 per cento delle unità vendute, con un picco del 70 per cento in Paesi come la Germania.



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