Alzheimer: cause, sintomi e novità dal mondo scientifico

26 settembre 2016
Interviste

Alzheimer: cause, sintomi e novità dal mondo scientifico



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Circa 25 milioni di casi nel mondo, un milione solo in Italia. Sono questi i numeri della malattia di Alzheimer che colpisce in genere le persone anziane distruggendo le cellule cerebrali e peggiorando notevolmente la qualità di vita di chi ne è affetto e di chi dei malati si prende cura. Insieme a Carlo Ferrarese, direttore scientifico del Centro di Neuroscienze di Milano dell'Università di Milano-Bicocca e Direttore della Clinica Neurologica dell'Ospedale San Gerardo di Monza, cerchiamo di comprendere meglio questa malattia e le novità che arrivano dal mondo scientifico.

Partiamo dalle basi: cosa succede al cervello che si ammala di Alzheimer?
«Il meccanismo che innesca la patologia neurodegenerativa è l'accumulo progressivo di una proteina chiamata beta-amiloide, che inizia anche decenni prima delle manifestazioni cliniche. Questa proteina viene prodotta in eccesso oppure smaltita con maggiore difficoltà dai malati di Alzheimer, portando a una distruzione delle sinapsi, ovvero i collegamenti tra i neuroni, con vari meccanismi, fino ad arrivare alla morte dei neuroni stessi».

Quali sono i sintomi e i segni clinici della malattia?
«Nella maggior parte dei casi, i primi segni sono disturbi di memoria, in particolare ci sono problemi a ricordare i fatti recenti mentre quelli più remoti si conservano senza grandi problemi. Possono esserci anche cambiamenti comportamentali come ansia, depressione, un certo ritiro sociale e difficoltà di concentrazione e in seguito, con la progressione della malattia, vi sono difficoltà a utilizzare il linguaggio o a capire le cose e si arriva a perdere completamente l'autonomia. Quando sopraggiunge questa perdita di autonomia si può parlare di demenza, mentre quando si presentano i sintomi iniziali, ma l'autonomia è preservata, si parla di declino cognitivo lieve. L'esordio della malattia con disturbi di memoria è tipico dell'Alzheimer e non di altre forme di demenza, ma la diagnosi di certezza si ottiene solo quando si dimostra l'accumulo di beta-amiloide nel cervello».

Quali sono quindi gli esami per arrivare alla diagnosi definitiva di Alzheimer?
«Con la Pet e uno specifico marcatore si può dimostrare l'accumulo della proteina beta-amiloide anche nelle fasi iniziali del processo. Attenzione però: così facendo si ha la diagnosi certa della presenza del processo patologico nel cervello, ma non si hanno dati certi su come progredirà questo accumulo e di conseguenza la patologia di Alzheimer. L'accumulo significa che il soggetto ha maggior possibilità di diventare demente, ma non significa che lo diventerà di sicuro. L'esame si effettua in soggetti che presentano i primi segni di declino cognitivo lieve o problemi di memoria, in genere sopra i 65 anni. Per la diagnosi è possibile inoltre misurare i livelli di beta-amiloide nel liquido cerebrospinale: livelli più bassi della norma indicano che la proteina è rimasta nel cervello e lo smaltimento non è efficace».

Quali sono i fattori che possono influenzare lo sviluppo della malattia di Alzheimer?
«Una piccola percentuale di casi di Alzheimer è familiare, dovuta a mutazioni nel precursore o negli enzimi che producono il beta-amiloide, ma si parla di percentuali non superiori al 10 per cento del totale. Ci può anche essere una predisposizione genetica: alcuni individui possono avere un assetto genetico con varianti particolari dei geni che li rendono più sensibili di altri allo sviluppo della patologia».

Quindi è solo una questione di geni e Dna?
«Assolutamente no. Gli stili di vita corretti sono fondamentali. Per esempio tutti i comportamenti rischiosi a livello cardiovascolare lo sono anche per lo sviluppo di Alzheimer poiché un danno vascolare rallenta lo smaltimento della beta-amiloide dal cervello. Normalmente infatti la proteina viene smaltita attraverso la barriera ematoencefalica, passando dal cervello ai vasi sanguigni che arrivano fino al cervello e che portano la proteina nel circolo ematico. Se i vasi però sono in qualche modo danneggiati lo smaltimento è ridotto o limitato e inizia l'accumulo. Bisogna puntare quindi sugli stili di vita a partire da un'alimentazione adeguata come quella mediterranea, e senza dimenticarsi di abolire il fumo, svolgere un'attività fisica regolare e dedicare le giuste ore al sonno, poiché si è visto che durante il sonno aumenta lo smaltimento di beta-amiloide. Utile anche mantenere il cervello attivo, con un buon grado di istruzione e attività che impegnano la mente».

Passiamo ora alla cura: esistono oggi farmaci capaci di bloccare l'accumulo di amiloide?
«Sono in corso diversi studi in tutto il mondo - anche in Italia, per esempio nel nostro centro a Monza - su farmaci che si sono dimostrati efficaci nel ritardare l'accumulo di beta amiloide secondo diversi meccanismi, ma al momento si tratta di terapie in fase sperimentale, seppur avanzata. Alcuni sono farmaci che si prendono per bocca e che vanno a ridurre la produzione di amiloide, altri invece sono anticorpi monoclonali che rimuovono la proteina dal cervello e ne facilitano lo smaltimento. L'efficacia a livello biologico è stata ampiamente dimostrata, dobbiamo ora dimostrare l'efficacia clinica, ovvero dimostrare che effettivamente questi trattamenti bloccano la progressione clinica della malattia. Una cosa è certa: se tali farmaci vengono assunti quando la demenza è già in atto, il loro effetto è scarso. La diagnosi precoce è quindi fondamentale per un buon successo della terapia. Il messaggio per tutti è dunque di non sottovalutare i primi segni di problemi alla memoria».

Cristina Ferrario



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