Cellulari e cancro, la parola d’ordine è precauzione

28 aprile 2017
Interviste

Cellulari e cancro, la parola d’ordine è precauzione



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Paolo Crosignani è stato per molti anni il direttore dell'Unità Operativa Complessa Registro Tumori ed Epidemiologia Ambientale dell'Istituto Nazionale Tumori di Milano. I suoi studi sui tumori professionali sono ora legge dello stato e la sua consulenza per la magistratura ha permesso di scoprire i danni della centrale a carbone di Vado Ligure. Ora che è in pensione, è stato chiamato a fornire la sua opinione di esperto in una causa che ha visto contrapposti un ex lavoratore della Telecom e l'Inail. L'oggetto del contendere: il lavoratore ha utilizzato per molti anni e per ragioni professionali uno dei primi modelli di telefono cellulare e, dopo alcuni anni, ha sviluppato un neurinoma dell'acustico, un raro tumore benigno del nervo acustico che lo ha reso sordo da un orecchio. Il giudice del tribunale di Ivrea a cui la causa è stata affidata gli ha riconosciuto il diritto a una indennità per malattia professionale in quanto il neurinoma sarebbe la diretta conseguenza dell'uso continuativo del cellulare.

Molti giornali hanno inteso la sentenza di Ivrea come la dimostrazione che i cellulari inducono tumori al cervello. È questo il senso della sua perizia e del giudizio della Corte?
«C'è un fraintendimento importante in questa vicenda. Come perito sono stato chiamato a dimostrare la relazione tra la malattia di quel singolo paziente e l'uso del cellulare negli anni in cui si svolgeva la sua attività lavorativa. In sostanza ho ritenuto che ci siano sufficienti prove del fatto che l'uso di cellulari di vecchia concezione, che emettevano onde elettromagnetiche a elevata intensità, per molte ore al giorno (in questo caso più di tre) è collegato, in molti studi, a un aumento di rischio di insorgenza di un tumore ben specifico, il neurinoma dell'acustico. Non ho mai detto (perché non sarebbe possibile farlo) che l'uso di qualsiasi cellulare, per qualsiasi durata temporale induca la comparsa di qualsiasi forma di tumore al cervello. Per quanto ne so, al momento vi sono solo alcuni studi che mostrerebbero una associazione tra uso di cellulari e sviluppo di gliomi, un tipo diverso di cancro del cervello, ma non sono studi conclusivi».

C'è quindi anche una dimensione temporale importante in questa sua valutazione.
«È così, perché i vecchi modelli di cellulare emettevano onde a una potenza elevata, mentre i modelli più recenti emettono onde a potenza più bassa, meno pericolose. Inoltre c'è un particolare non trascurabile: il cellulare emette onde elettromagnetiche la cui potenza dipende dalla distanza dal ripetitore. Oggi ci sono molti più ripetitori in giro, perché molte più persone usano il cellulare. Quindi, paradossalmente, più diffusa è questa tecnologia, minori sono i rischi per la salute».

I rischi però esistono, secondo la sua valutazione.
«Certamente, almeno per quanto riguarda il neurinoma dell'acustico e per un utilizzo intensivo degli apparecchi, in particolare in specifici ambienti che moltiplicano gli effetti deleteri delle onde (in questo caso il paziente usava l'apparecchio al chiuso, nella propria auto). Questo è quanto ci dicono gli studi più attendibili».

Nella sua perizia lei definisce poco attendibili alcuni grandi studi internazionali, come lo studio Interphone, che invece dimostrano l'assoluta sicurezza degli apparecchi. Su che base lo afferma?
«I giornali hanno scritto che ho escluso lo studio Interphone perché è stato finanziato dalle aziende di telefonia. Non ho mai detto questo. L'ho considerato inattendibile perché mostra un risultato paradossale: risultano meno a rischio proprio le persone che si espongono di più ai cellulari! La ragione di questa conclusione è nella cattiva qualità dello studio, che ha coinvolto migliaia di persone in tutto il mondo ma con una qualità delle indagini non omogenea (solo poco più di metà dei soggetti reclutati ha risposto al questionario che valutava la frequenza di uso del cellulare). Uno studio così mal fatto non avrebbe mai dovuto essere pubblicato: se lo è stato è perché dietro c'era la spinta dell'industria, e in questo senso ho detto che il finanziamento industriale a queste ricerche può essere deleterio. Il problema, con l'epidemiologia, è che se un medico sbaglia una cura il paziente muore o sta peggio e il risultato è immediatamente visibile. Se invece sbaglia a disegnare o a realizzare uno studio epidemiologico, al massimo troverà che le persone esposte a un certo fattore hanno lo stesso rischio di ammalarsi di quelle non esposte. In sostanza troverà che il pericolo non esiste anche se magari esiste».

Si dice che lei abbia paragonato questa sentenza sulla relazione tra cellulari e tumori alle sentenze sulla relazione tra amianto e cancro. Questo le ha attirato molte critiche.
«Di nuovo credo di essere stato travisato. Ho detto che, come nel caso dell'amianto, anche nel caso dei cellulari non conosciamo del tutto i meccanismi molecolari che stanno alla base dell'effetto cancerogeno. Nel caso dell'amianto gli esperti puntano il dito su meccanismi aspecifici come l'infiammazione o la produzione di specie reattive dell'ossigeno, ma in realtà non sappiamo esattamente come, a livello molecolare, l'amianto induca la trasformazione maligna delle cellule. Questo non vuol dire che non si sappia con certezza che l'amianto è cancerogeno. Con i cellulari siamo in una situazione simile, mentre in altri casi, come il fumo di sigaretta o la diossina, conosciamo persino i recettori molecolari coinvolti nella formazione del cancro. Qualcuno ha anche contestato la mia perizia perché metto insieme due eventi rarissimi: una esposizione prolungata a un cellulare di prima generazione e la comparsa di un neurinoma dell'acustico, che è un tumore davvero poco frequente. Ma io dico che proprio l'associazione tra due eventi che singolarmente sono rari rafforza il nesso di causalità, cioè conferma che proprio il primo evento è causa del secondo».

Ora però le persone sono spaventate e si chiedono cosa fare. L'uso del cellulare su base quotidiana è un rischio?
«Come ho detto prima, la tecnologia si è evoluta e oggi il rischio, se c'è, è molto più contenuto che nel passato. D'altronde se non fosse così assisteremmo a una vera e propria epidemia di tumori cerebrali, dato che le tipologie per le quali vi sono prove di una possibile relazione fanno parte dei cosiddetti tumori non epiteliali che hanno una latenza inferiore agli altri tumori. In sostanza, se ti devi ammalare, ti ammali in pochi anni, non come con l'amianto in cui tra esposizione e comparsa della malattia possono passare anche 30 o 40 anni. Ma dato che non ci siamo tutti ammalati di tumore al cervello e che anche le curve epidemiologiche sono relativamente stabili, vuol dire che il rischio è limitato. Io ho scelto comunque il principio di precauzione: uso il cellulare distanziandolo dall'orecchio, ricorrendo agli auricolari. Evito anche di tenerlo in tasca a contatto col corpo».

È possibile quindi che col passare del tempo gli effetti negativi che lei ha riscontrato nella sua perizia siano scomparsi.
«È possibile proprio per il miglioramento tecnologico a cui accennavo. Quando valutiamo la cancerogenicità di una tecnologia, dobbiamo farlo sulla base degli studi condotti su persone che la utilizzavano negli anni di cui ci stiamo occupando, non oggi. Se mescoliamo studi degli anni '90 con quelli di oggi, stiamo mescolando le pere con le mele, perché andiamo a vedere gli effetti sulla salute di due cose completamente diverse. Una cosa però ci tengo a dirla: anche chi riconosce che ci possa essere un effetto cancerogeno delle onde elettromagnetiche ad alta frequenza nell'uomo, spesso lo riconduce solo al riscaldamento dell'orecchio nel punto in cui poggia il cellulare. Io credo invece che esista un meccanismo biologico diverso e che le onde elettromagnetiche inducano una trasformazione cancerogena anche per via diretta. Per questo sono contrario a quanto sta avvenendo nel mercato delle telecomunicazioni: gli operatori cercano di spostare tutti i servizi sulla rete mobile, invece di utilizzare la fibra ottica che funziona meglio ma è più costosa in termini di infrastrutture. Aggiungerei anche che, a mio avviso, è anche più sicura per la salute perché riduce l'inquinamento elettromagnetico».

Daniela Ovadia



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