Pari opportunità: leggenda o realtà?

12 settembre 2010
Aggiornamenti e focus

Pari opportunità: leggenda o realtà?



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''Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso...'' ''La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto....'' ''Il matrimonio è ordinato sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare''. Sono stralci degli articoli 3, 4 e 29 della costituzione dai quali si dovrebbe dedurre una sostanziale uguaglianza tra uomini e donne in relazione al lavoro e alla famiglia. Anche in materia sanitaria il rapporto, redatto dal Fondo per la popolazione dell'Onu (Unfa), riconosce i progressi fatti per il miglioramento della condizione femminile dopo la ''Conferenza sulla popolazione e lo sviluppo'' del Cairo, nel 1994, dove 179 nazioni presero in esame la condizione femminile nei rispettivi paesi. I rappresentanti dei governi delle nazioni partecipanti si sono, tra l'altro, impegnati a dare piena parità di diritto alle donne, con una maggiore istruzione e assistenza sanitaria.
Ma è veramente così?

Alcuni dati

Secondo lo ''Stato della popolazione mondiale 2000'' una donna su tre è vittima di violenze, nel corso della vita, spesso operate da persone a lei vicine; ogni anno due milioni di ragazze al di sotto dei quindici anni sono costrette ad avere rapporti sessuali contro la loro volontà; circa 500.000 donne muoiono ogni anno per complicazioni che insorgono durante la gravidanza e il parto; annualmente circa otto milioni di bambini muoiono alla nascita o poco dopo - nella maggioranza dei casi per la mancanza di adeguata assistenza ostetrica; circa un terzo di tutte le nascite, ogni anno, sono parti indesiderati; infine, dei circa cinquanta milioni di aborti annuali, circa venti milioni sono clandestini - avvengono cioè senza la dovuta assistenza sanitaria. Ciò comporta la morte di circa 78.000 donne ogni anno. Un quarto di queste interruzioni volontarie di gravidanza vengono praticate su ragazze tra i quindici e i diciannove anni. Più incoraggianti i dati della Comunità Europea. La speranza di vita delle donne è aumentata considerevolmente fino a raggiungere 80 anni, vale a dire 6 anni di più rispetto alla media maschile. I tassi di mortalità materna sono del pari diminuiti in maniera significativa (79% rispetto al 1970) giungendo a solo 7 decessi su 100.000 donne nel 1992. Infine il 62% delle donne si considerano in buona salute.
Passando alle nostre latitudini un dato risulta evidente: le donne investono di più in cultura e riescono meglio negli studi. Negli ultimi decenni, infatti, la propensione da parte delle donne a proseguire gli studi è fortemente aumentata. La quota di ragazze tra i 14 anni e i 18 anni iscritte alle scuole secondarie superiori sale dal 7% nel 1950/51 all'84% nel 1997/98. Nel1997-98 le ragazze iscritte all'Università sono state il 47,5%, i ragazzi soltanto il 37%. Importanti cambiamenti si presentano anche nella scelta degli indirizzi.
E' raddoppiata la presenza negli istituti tecnici e professionali nonchè nei licei scientifici, dimezzata, invece quella nei licei classici e linguistici e ancora di più in quelli magistrali. Anche nelle università le donne scelgono sempre più spesso corsi dove era tradizionale la prevalenza degli uomini. Non solo. Il rendimento femminile è superiore a quello maschile. Al termine del percorso formativo, fra le 1000 donne con licenza media 193 conseguono un titolo universitario, fra gli uomini soltanto 120. Migliore istruzione uguale lavoro migliore? Non esattamente. Il tasso di disoccupazione delle donne, infatti, è sempre maggiore di quello maschile. Un dato che migliora con il progredire della formazione e che può essere solo in parte spiegato dalla scelta di corsi di studio che offrono sbocchi limitativi sul lavoro (discipline letterarie e giuridiche).

Come cambia il lavoro delle donne

I numeri sul fronte del lavoro al femminile non sono perciò particolarmente incoraggianti. L'Italia condivide, infatti, insieme a Grecia e Spagna, il triste primato dei più elevati differenziali sfavorevoli sia per il tasso di occupazione sia per quello di disoccupazione. La situazione, però, sembra in miglioramento progressivo, almeno secondo i dati Istat. Tre aspetti lo testimonierebbero:

Migliora la posizione lavorativa

Le donne, infatti, partecipano sempre più al mercato del lavoro, non soltanto come dipendenti ma anche con iniziative imprenditoriali; nel 1999 sono state rilevate oltre 1,2 milioni di lavoratrici autonome.

Crescono i lavori atipici

Vanno diffondendosi le cosiddette forme contrattuali atipiche, con differenze di orario, durata, aliquote contributive e livelli retributivi. In Italia lo sviluppo di queste forme contrattuali è inferiore alla dinamica europea, ma si è comunque progressivamente ampliato.

Si diffondono orari atipici

Nel corso degli anni '90 si è verificato un netto incremento del ricorso abituale ad orari lavorativi atipici. Fra le donne, il 55% lavora il sabato, il 22% svolge lavoro serale, il 14% lavora a turni, il 19% la domenica, l'8% svolge lavori notturni.

Lavoro come centro

Il modello ''casalinga-moglie-madre'' va perciò inevitabilmente declinando in tutte le età e in tutte le zone del paese. Per le donne cambiano in modo significativo ampiezza e contenuti delle diverse fasi del ciclo di vita individuale e familiare. Per le giovani che hanno investito in formazione e cultura lavorare è parte del vivere ed acquisisce così una nuova centralità. Non si modifica però in parallelo nè la distribuzione dei compiti familiari nè l'approccio culturale ai ruoli di genere. In sintesi il lavoro domestico ricade per lo più ancora sulle spalle delle donne, con il risultato che il 56% delle donne occupate in coppia con figli è impegnato per 60 ore o più a settimana, rispetto al 15% del partner. Una evidente asimmetria anche se dalle giovani generazioni sembrano emergere segnali di novità nell'impegno paterno. Il lavoro comunque si riflette positivamente anche sulle relazioni familiari tanto che le donne che lavorano si dichiarano più soddisfatte delle casalinghe anche riguardo alla vita familiare. Permangono comunque difficoltà nel conciliare ruoli esterni e interni alla famiglia e tutto questo nonostante gli importanti interventi recenti in materia di politica del lavoro e della famiglia.

Alcune leggi

A partire dalla fine degli anni '70 sono state approvate una serie di leggi che hanno cercato di dare effettiva attuazione al dettato costituzionale citato inizialmente. Ecco le principali:

Legge n.903 del 1977
Parità di trattamento fra uomini e donne in materia di lavoro: vieta qualsiasi discriminazione per quanto riguarda l'accesso al lavoro, l'attribuzione delle qualifiche, delle mansioni e la progressione di carriera in tutti i settori e rami di attività; ha stabilito che la lavoratrice ha diritto alla stessa retribuzione del lavoratore quando le prestazioni richieste siano uguali di valore.

Legge n.863 del 1984
Misure urgenti a sostegno dei livelli occupazionali: ha conferito alla Commissione Regionale per l'Impiego la facoltà di effettuare, attraverso l'Ispettorato del lavoro, indagini presso le imprese qualora sussistano fondati motivi per ritenere che le disposizioni in materia di pari opportunità non vengano rispettate.

Legge n.125 del 1991
Legge sulle pari opportunità: una svolta significativa che ha rinnovato la strumentazione necessaria per garantire l'applicazione della 903/77. tale legge inoltre conferisce al consigliere di parità voto deliberativo all'interno della Commissione centrale per l'Impiego.

Legge n. 1204 del 1971
Tutela della maternità: con questa legge dall'inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino è proibito al datore di licenziare la lavoratrice, a meno che non commetta una colpa grave costituente giusta causa di licenziamento. E' rivolta a tutte coloro che hanno un rapporto di lavoro subordinato, ad alcune lavoratrici autonome, alle socie di cooperative e alle libere professioniste iscritte alle casse di previdenza. L'astensione dal lavoro prevista dalla legge è di due tipi: 1) obbligatoria (nei due mesi precedenti il parto e nei tre mesi successivi) con diritto a percepire un'indennità pari all'80% della retribuzione e fino al 100% nei casi previsti dalla contrattazione collettiva; 2) facoltativa (fino a sei mesi presi entro il primo anno di vita del bambino), senza alcuna retribuzione ma con un'indennità dell'INPS pari al 30% dello stipendio. Nel primo anno di vita del bambino, per consentire l'allattamento, la lavoratrice madre che ne faccia richiesta ha diritto ad astenersi dal lavoro, senza vedersi decurtata la retribuzione, due ore al giorno se l'orario è pari o supera le sei ore, un'ora se è inferiore alle sei ore.

E' vera parità?

Nonostante i considerevoli passi avanti però la strada da percorrere è ancora lunga. I cambiamenti culturali, si sa, sono lenti, e le politiche del lavoro e della famiglia rimangono ancora insufficienti, nonostante gli importanti eventi recenti. Succede così che per molti la donna è la sola addetta al focolare. Quanto alla carriera in molti casi la donna deve lavorare due volte meglio dell'uomo per avere lo stesso riconoscimento. E' il caso delle retribuzioni. Secondo un recente studio del Cnel (Consiglio Nazionale dell' Economia e del Lavoro), persistono soprattutto ai livelli professionali più elevati, differenze retributive anche del 20% tra uomini e donne, non giustificabili con elementi oggettivi. E' evidente la violazione del principio di parità di trattamento sancito dalla legge. E non è l'unico caso.



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