Nuovi cibi terapeutici per salvare i bambini denutriti

24 luglio 2015
Interviste

Nuovi cibi terapeutici per salvare i bambini denutriti



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Gli interventi per salvare la vita ai bambini gravemente denutriti sono molto migliorati negli ultimi anni grazie alla messa a punto di cibi pronti che non solo contengono tutti i nutrienti necessari, ma non richiedono l'aggiunta di acqua né di latte (che in molti paesi potrebbero essere contaminati) e si conservano a lungo a temperatura ambiente. Nei giorni scorsi l'organizzazione umanitaria Medici Senza Frontiere ha organizzato all'Expo di Milano (dedicata proprio al tema della nutrizione) un incontro proprio su questi nuovi alimenti terapeutici pronti all'uso (in inglese Rutf, ovvero Ready to use therapeutic food), e sulle mille difficoltà che si incontrano sul campo. Dica33 ne la parlato con la Engy Alì, egiziana da tempo trapiantata in Lussemburgo, che ha coordinato una ricerca di Medici Senza Frontiere condotta nella baraccopoli di Dacca, in Bangladesh.

Dottoressa Alì, che cosa sono questi cibi terapeutici, e in che cosa è consistita la vostra ricerca?
«Si tratta di alimenti confezionati che rispettano un lungo elenco di caratteristiche stilate dall'Organizzazione mondiale della sanità. Sono studiati in modo da fornire tutto ciò che occorre all'organismo gravemente denutrito di un bambino che spesso non riesce nemmeno a mangiare. Ce ne sono di vari tipi, basati in genere su un alimento molto comune e nutriente, dalle lenticchie ai ceci alle arachidi. Noi in particolare abbiamo cercato di capire se l'impiego di un prodotto molto efficace, prodotto in Francia a partire dalle arachidi molto comuni e amate per esempio in Africa, presenta problemi di accettazione in una popolazione diversa, come quella del Bangladesh».

Il vostro intervento è stato mirato ai bambini denutriti di una immensa baraccopoli alla periferia di Dacca...
«Sì. È una situazione molto complessa, perché a differenza dei villaggi poveri delle aree rurali in cui c'è sempre una struttura sociale cui fare riferimento, nelle baraccopoli è anche difficile far circolare le informazioni. Ed è complicatissimo per esempio ritrovare a distanza di tempo i bambini assistiti per sapere come stanno».

Che cosa avete scoperto?
«Abbiamo verificato che non sempre quella che a noi professionisti sembra la soluzione ideale viene percepita come tale anche dai destinatari, in questo caso le mamme o comunque chi si prende cura dei bambini. Per molte di loro, il sapore è sgradevole, e complessivamente anche se sono testimoni del fatto che la salute del bambino migliora rapidamente grazie a questi prodotto, non lo trovano granché accettabile come cibo».

Perché questa scoperta, o forse è meglio dire questa conferma dei vostri sospetti, è importante?
«Perché da un lato ci suggerisce un approccio diverso - per cui spieghiamo da subito che va considerato come fosse una medicina, anche se non sempre le mamme sono consapevoli della gravità della denutrizione del loro piccolo - e dall'altro ci conferma che se vogliamo assicurare l'uso migliore delle risorse nella lotta contro la malnutrizione grave occorre cercare nuove soluzioni che siano il più somiglianti possibile ai cibi tradizionali dei contesti in cui interveniamo, anche perché questa è la migliore garanzia che una volta risolto il problema acuto i bambini tornino ad alimentarsi normalmente».

Perché capita che i bambini che si abituano ai cibi terapeutici non riescano più a mangiare altro?
«Sì, è così. Può capitare che tornino da noi mamme preoccupate del fatto che il loro bambino rischia di perdere nuovamente peso non perché il cibo manca completamente, ma perché lui non mangia altro che il cibo pronto, che ha un sapore molto diverso».



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