Garanzie di sicurezza

21 maggio 2004
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Garanzie di sicurezza



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Stabilire il rischio di una innovazione scientifica non è sempre facile, soprattutto in virtù del fatto che l'innovatore ritiene giusto che il suo prodotto venga considerato sicuro finché non venga provato che sia insicuro. Una sorta di innocenza fino a prova contraria. Ma nel frattempo i rischi, qualora ci fossero davvero, chi li corre? Il dibattito è estendibile a qualsiasi novità tecnico-scientifica, in particolare con gli organismi geneticamente modificati, a maggior ragione se questi finiscono, a volte indirettamente, in tavola. Per quanto si parli ormai da anni di OGM e di manipolazione genetica, che è diversa dalla selezione genetica, tecnica che si perde nella storia dell'agricoltura, nessuno può dire con esattezza quali siano i rischi per la salute umana.

Trans-allergene


Il sospetto che qualche rischio ci sia emerge già da un semplice ragionamento logico: se inserisco un gene che codifica per una proteina che prima non c'era, esiste, almeno potenzialmente, la possibilità che qualcuno sia allergico a essa. Studi clinici che lo dimostrano per ora non ce ne sono ma è possibile far riferimento a due casi osservati. Il primo riguarda la soia, che nei primi anni '90 è stata resa transgenica con il trasferimento di un gene della noce brasiliana che permetteva l'aumento di produzione di aminoacidi solforati, utili nell'alimentazione animale. Ma oltre a questa miglioria, il nuovo legume conteneva anche una proteina, sempre codificata dal transgene, riconosciuta come potente allergene. Per evitare reazioni allergiche nei soggetti sensibili il progetto è stato abbandonato. L'altro caso è quello del mais "star link", ingegnerizzato grazie a un gene proveniente da un batterio, il Bacillus thuringensis, ancora una volta destinato all'alimentazione animale. Ma il prodotto del gene era sospetto di essere allergenico e quindi ritirato ma essendo comunque stato usato, illegalmente, anche per l'alimentazione umana, sono stati registrati casi di lievi manifestazioni allergiche.

Resistenza condivisa


Nell'allestimento di un OGM è necessario avvalersi dell'aiuto di geni marcatori che permettano al ricercatore di individuare nella coltura cellulare quali cellule hanno il DNA modificato: l'espressione della caratteristica codificata dal gene marker funge da etichetta distintiva. Spesso si tratta di geni provenienti da batteri e contengono sequenze regolatrici che ne promuovono l'espressione all'interno della cellula vegetale da trasformare.
Se ne usano di due tipi. Alcuni inducono resistenza a una certa sostanza, di solito un antibiotico, e consentono alla linea cellulare trasformata di sopravvivere quando nel terreno di coltura viene aggiunto l'antibiotico, tossico per le altre cellule. Altri geni marker utilizzati codificano per sostanze facilmente identificabili, che producono reazioni "visibili". Per esempio il gene per la beta-D-glucoronidasi dell'Escherichia coli produce un enzima che promuove l'idrolisi di un determinato substrato con formazione di prodotti colorabili. In ogni caso, il sospetto di possibili reazioni allergiche a tali sostanze c'è ma anche il rischio di trasferire la resistenza agli antibiotici. I geni marker di resistenza, infatti, potrebbero essere trasferiti orizzontalmente (cioè tra specie diverse) dalla pianta ai batteri presenti nell'ambiente che interagiscono con la pianta stessa, basti pensare ai microrganismi simbionti che vivono nelle radici. Le conseguenze di questo fenomeno a livello di salute pubblica sono notevoli perché non si tratta di reazioni individuali ma di neutralizzazione di farmaci normalmente usati.

Digestione difficile

Un altro quesito a cui non è stata data risposta, sorge spontaneo: ma i transgeni una volte ingeriti dove vanno a finire? In linea teorica gli enzimi presenti nel tratto gastrointestinale dovrebbero digerirli ma esistono studi su mammiferi che sostengono la reperibilità di transgeni, o per lo meno frammenti della dimensione media di geni, nel sangue e nei tessuti. La sopravvivenza all'interno dell'organismo espone al rischio di trasferimento orizzontale dei geni dimostrato nei mammiferi e negli uccelli.

Cauti è meglio

Forse in questo caso, più degli altri, vale il "principio di precauzione", nato nel Nord-Europa negli anni '70-'80 nelle analisi dell'impatto ambientale dello sviluppo dell'industria e della tecnologia. Quando si assiste a un'intensificazione tecnologica e non ci sono garanzie di una totale assenza di impatto ambientale, meglio essere dalla parte della sicurezza piuttosto che da quella del rischio. Un principio spesso chiamato in causa, e criticato in quanto limitante il progresso tecnologico, che però implica l'obbligo di definizione di standard necessari per stabilire il rischio. E richiede, inoltre, evidenze di sicurezza che devono far riferimento a determinate soglie di errore legato alla casualità. Va da sé, forse, che tali prove dovrebbero essere promosse e sostenute, da chi la novità la vuole, la promuove e la sostiene.

Simona Zazzetta



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