Sperimentazioni a tradimento

23 gennaio 2008
Aggiornamenti e focus

Sperimentazioni a tradimento



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Di leggende metropolitane relative alla medicina ne circolano parecchie. Tra le più ricorrenti vi sono quelle relative alla sperimentazione clinica di nuovi trattamenti: le varianti sono parecchie, ma al fondo tutte sostengono che le sperimentazioni vengono condotte a insaputa del paziente; hanno per oggetto persone deboli (anziani, poveri...) che non sanno o non possono sottrarvisi. Queste le chiacchiere da bar, ma vi è un pregiudizio analogo anche in una parte degli addetti ai lavori. In particolare per le sperimentazioni di fase I di nuovi trattamenti antitumorali. Si tratta di ricerche in cui si sperimenta per la prima volta il nuovo trattamento nell'uomo (inteso come specie, ovviamente) e necessariamente vi partecipano persone che hanno malattie tumorali ormai incurabili, che magari hanno già subito altri trattamenti senza successo. Ciò premesso, a queste sperimentazioni si rimprovera di coinvolgere soggetti in posizione di debolezza, di presentare rischi non trascurabili e di offrire, nel contempo, benefici limitati. Di queste critiche si occupa uno studio recentemente pubblicato dagli Archives of Internal Medicine. Lo studio parte, ovviamente, dalla stessa definizione di soggetto debole, o per meglio dire vulnerabile, che prevede tre casi: le persone che hanno ridotte capacità cognitive, quindi impossibilitate a capire che cosa è meglio per loro (per esempio, anziani sofferenti di Alzheimer o bambini); persone che per il contesto in cui si trovano inserite non sono libere di decidere perché possono temere reali o presunte ripercussioni (pere esempio i carcerati, o i membri delle forze armate o, ancora, i bambini); il terzo caso è quello delle persone svantaggiate dal punto di vista socioeconomico: troppo poco istruite per comprendere quanto gli viene proposto o troppo povere per accedere a cure di un certo standard per vie differenti. E' ovvio che poi i tre elementi citati possono combinarsi in diversi modi.

Autosufficienti e assicurati


Gli autori dello studio, quindi, hanno deciso di controllare se i partecipanti agli studi di Fase 1 dedicati ai trattamenti oncologici presentavano nel loro complesso caratteristiche di vulnerabilità. La ricerca è stata condotta raccogliendo le caratteristiche dei partecipanti agli studi sponsorizzati dal Cancer Therapy Evaluation Program (CTEP) organizzato dal National Cancer Institute, ente di ricerca pubblico statunitense, cominciati tra il 1991 e il 2002, nonché quelle dei partecipanti ad altri 11 studi pubblicati (e quindi conclusi) nello stesso intervallo di tempo. Le due selezioni rappresentavano rispettivamente 9841 e 20692 pazienti. In tutto il campione così raccolto si registrava una leggera prevalenza del sesso maschile, l'età media si collocava tra i 50 e i 59 anni. La quasi totalità era già stata sottoposta a un trattamento, e in uno degli studi la media dei trattamenti ricevuti da ciascun partecipante era pari a tre. Sia nel database del CEPT sia negli studi del secondo gruppo le scale di valutazione delle capacità fisiche e cognitive segnalava che praticamente tutti i partecipanti erano in grado di provvedere a se stessi, al limite con un piccolo aiuto. Quindi, per quanto riguarda lo stato psicofisico, non si segnalavano carenze particolari; nemmeno dal punto di vista sociale si poteva dire che vi era una selezione di gruppi svantaggiati: i partecipanti erano in larghissima maggioranza bianchi (attorno al 90%) e le persone che non disponevano di una polizza sanitaria (pubblica, privata pagata dal datore di lavoro, privata personale) non toccava il 4%, cui per buona misura si potrebbe aggiungere il 9% per il quale non vi era indicazione al riguardo, ma sempre pochi restano.

Benefici superiori al previsto


Quanto al livello economico e di istruzione, più della metà aveva un reddito famigliare superiore a 43000 dollari e il 28% era costituito da laureati. In pratica, per tutte le variabili considerate indice di vulnerabilità, i partecipanti mostravano un profilo superiore alla media della popolazione statunitense. Difficile pensare che non fossero in grado di capire e scegliere volontariamente e, soprattutto, difficile pensare che non avessero altro modo di accedere ai trattamenti. E' vero che c'è chi sostiene come la malattia stessa sia una ragione di vulnerabilità e, quindi, la certezza di una malattia terminale possa di per sé inficiare l'autonomia e la capacità di giudizioso. A parte il fatto che non è possibile generalizzare, una definizione di questo genere praticamente renderebbe buona parte dei malati dei soggetti incapaci di decidere, anche quando, per esempio, scelgono di rifiutare una cura. Quindi un criterio molto pericoloso.
Infine, un aspetto da non sottovalutare è la revisione che recentemente è stata fatta dei benefici dell'adesione a trattamenti sperimentali: di norma si riteneva che soltanto il 4%dei partecipanti ottenesse un beneficio, ma ora le stime vanno ritoccate al rialzo, perché si tratta di più del 10%. E non è così poco.

Maurizio Imperiali



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