Se l'antibiotico lavora per il nemico

16 febbraio 2007
Aggiornamenti e focus

Se l'antibiotico lavora per il nemico



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Somministrare antibiotici genera resistenze, cioè seleziona ceppi di batteri che sono immuni al farmaco. Allo stesso modo è noto che per alcune famiglie di farmaci le resistenze sono più diffuse e che anche all’interno della stessa famiglia di farmaci qualche molecola ha questo effetto in misura più marcata di altre. Però, se molte sono le prove, per così dire, indiziarie, gli studi controllati che provano che la sola somministrazione del farmaco è in grado di indurre il fenomeno (e in che modo) sono pochi, e gli altri studi recano con sé un certo numero di circostanze che possono confondere il quadro.
Diverso l’approccio di uno studio condotto in Belgio, dove si è partiti, per così dire, da zero: a un gruppo di pazienti sani, che non avevano assunto antibiotici negli ultimi sei mesi, sono stati somministrati o azitromicina, o claritromicina o un placebo. Bersaglio di questa somministrazione, gli streptococchi che albergano nelle mucose dell’orofaringe (le tonsille, per tagliar corto). Questi streptococchi di solito non sono patogeni, però le loro mutazioni rispecchiano quelle degli altri streptococchi (per esempio, il pneumoniae) che nell’organismo dell’ospite possono provocare gravi malattie respiratorie. I due farmaci scelti appartengono alla famiglia dei macrolidi, antibiotici indicati nelle infezioni respiratorie e per i quali si segnala da un certo numero di anni un aumento delle resistenze, oltre che un largo impiego.

C’è resistenza e resistenza


I ricercatori hanno quindi esaminato gli streptococchi presenti nella faringe dei partecipanti prima dell’inizio della somministrazione, poi successivamente a intervalli nell’arco di ben sei mesi. Non si sono limitati a controllare la proporzione tra batteri sensibili e resistenti al farmaco, e in quale misura, ma anche a vedere quale tipo di mutazione era stata selezionata. La prima risposta è che effettivamente la sola somministrazione del farmaco è sufficiente a indurre una selezione di batteri resistenti: aumentavano del 50% nel gruppo che aveva ricevuto la claritromicina e del 53% nel gruppo dell’azitromicina. Inoltre, mentre il picco della presenza di streptococchi non più sensibili aumentava all’ottavo giorno con la claritromicina, con l’atro farmaco si presentava all’ottavo. Inoltre, il maggiore sviluppo di resistenze si aveva con l’azitromicina, e la differenza tra i due era massima al 28° giorno, perché l’azitromicina rimane nei tessuti più a lungo, quindi continua a favorire la proliferazione dei batteri resistenti (in quanto sono tenuti sotto scacco quelli sensibili). Ma non è tutto qui: l’analisi molecolare ha mostrato che mentre l’azitromicina determina un aumento complessivo dei batteri resistenti, la claritromicina favorisce lo sviluppo di quelli la cui resistenza è dovuta a un gene erm(b) che conferisce un elevato grado di resistenza, non solo ai macrolidi ma anche alle lincosamidi e alle streptogramine B. Insomma, con uno il rischio è che la diffusione nella comunità di resistenti sia maggiore, in quanto il paziente trattato li ospita più a lungo, con l’altro il rischio è di favorire resistenze più forti.
La conclusione è semplice: per evitare il fallimento della terapia è bene che il medico risalga nel tempo alle precedenti terapie antibiotiche subite dal paziente, e che se questi ha assunto macrolidi, scelga un altro tipo di farmaco; quanto ai pazienti, è bene che tengano traccia dei farmaco che assumono, perché è un dato sempre molto importante. Poi, ovviamente, c’è la solita indicazione di non usare antibiotici senza motivo, ma questo si sa. O no?

Maurizio Imperiali



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