Gomme rischiose

20 giugno 2008
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Gomme rischiose



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L'industria della gomma è caratterizzata dall'utilizzo di molte sostanze chimiche, alcune delle quali sono state in passato, considerate cancerogene per l'uomo o in animali da esperimento. Secondo i dati ISPESL le numerose indagini epidemiologiche disponibili hanno evidenziato, negli addetti esposti fino agli anni '50, un eccesso di mortalità per neoplasie soprattutto a carico della vescica e del sistema emopoietico. Poi le cose sono andate migliorando, anche grazie alla progressiva regolamentazione dell'uso delle ammine aromatiche che, sommato a un costante miglioramento delle condizioni igienico-ambientali dei luoghi di lavoro, sembra abbia portato a una riduzione dell'incidenza di queste neoplasie. Ma è veramente così? Non del tutto se si pensa che l'Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) classifica, l'industria della gomma come attività a rischio di provocare il cancro sulla base del sospetto dell'esistenza di prodotti di reazione biologicamente attivi che si sviluppano durante la lavorazione. E a confermare i sospetti arriva uno studio prossimo alla pubblicazione su Occupation and Environmental Medicine. Il 2-mercaptobenzotiazolo (MBT), infatti, sostanza utilizzata nel processo di vulcanizzazione della gomma potrebbe essere cancerogeno per i lavoratori regolarmente esposti.

La vicenda britannica


Secondo l'indagine, in via di pubblicazione e ripresa dal sito della BBC Health, i lavoratori dell'industria chimica Flexsys, regolarmente esposti alla sostanza, un solido giallo chiaro dall'odore caratteristico, avrebbero il doppio della probabilità di morire per un tumore dell'intestino o della vescica. Un dato che si ripromettono di verificare con ulteriori ricerche. La ricerca, condotta all'università di Birmingham, ha preso in esame i tassi di mortalità degli operai che avevano lavorato all'impianto nei pressi di Wrexham per almeno sei mesi, tra il 1955 e il 1984 e al contempo le diagnosi di cancro nel periodo tra il 1971 e il 2005. Secondo la ricerca dei 2160 lavoratori presi in esame 363 avevano effettuato un lavoro che li aveva messi in contatto diretto con l'MBT, la sostanza incriminata. Molti di questi, tra l'altro, erano stati esposti alla sostanza anche negli anni precedenti, a partire addirittura dagli anni '30. Ebbene alla fine del 2005, 222 di questi impiegati e 136 sono stati rintracciati ancora vivi. Dalla comparazione con le statistiche nazionali è emerso in maniera schiacciante come ci fosse un rischio raddoppiato per esposizione a MBT di morire di tumori intestinali o alla vescica e addirittura un rischio quadruplo di avere diagnosi di mieloma multiplo. In più aggiungono gli autori, dal confronto coi lavoratori che non sono stati esposti alla sostanza, il rischio è dose dipendente, quanto più cioè è stata l'esposizione alla sostanza tanto maggiore è il rischio conseguente. Un risultato, che sebbene meritevole di ulteriori approfondimenti, porta i ricercatori a invitare alla massima cautela nel maneggiare questa sostanza che potrebbe essere carcinogena.

Meglio essere cauti


La compagnia ovviamente si difende e in una nota sottolinea come "la salute e il benessere dei dipendenti sia di primaria importanza per la compagnia, e in considerazione di ciò stiamo rivedendo lo studio per definire, se c'è, quali iniziative debbano essere prese in termini di ulteriore investigazione". E aggiungono dall'azienda "per questo come per tutti i prodotti che sviluppiamo, produciamo e vendiamo, la compagnia dedica grande cura ad assicurare che non ci siano rischi per la salute umana e per l'ambiente in tutto il ciclo produttivo". Ma al di là delle belle parole dell'azienda, la BBC propone del 76enne Tom Owen che dopo aver lavorato per quarant'anni nell'azienda si è ritrovato con un tumore dell'intestino, negli anni '90 e che racconta tutta la sua trafila medica. Motivo per cui i responsabili della ricerca sottolineano che, sebbene Flexsys abbia interrotto l'utilizzo di MBT nel 2001, in altre parti del mondo sicuramente ancora avviene ed è bene avere tutte le cautele del caso. E alla situazione già critica si aggiunge anche la paura di un'eventuale contaminazione ambientale. A giudicare dai risultati dello studio, perciò, l'atteggiamento cauto della IARC è più che comprensibile.

Marco Malagutti



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