Medico tuttofare

25 luglio 2008
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L'arrivo di internisti che operano esclusivamente in ospedale, una novità per gli Stati Uniti, dove sono chiamati hospitalist, non piace a tutti indistintamente. Tra le obiezioni sollevate, la più forte è che il paziente subisce una sorta di passaggio di consegne tra il medico che lo cura in corsia e quello cui si è affidato fino a quel momento. Certamente, dicono, poter avere al proprio letto lo stesso internista, nel cui studio ci si reca periodicamente, è il modo migliore per avere una continuità terapeutica: non si cambiano inutilmente le prescrizioni, non c'è bisogno di riscoprire eventuali condizioni particolari, per esempio le allergie ai farmaci. Questo ha un senso, così come ha un senso tutto l'aspetto del rapporto tra medico e paziente. Si può aggiungere inoltre che se l'hospitalist è riuscito in molti casi a ridurre la lunghezza dei ricoveri, e anche l'esito clinico in certe situazioni, mancano studi che verifichino a lungo termine il risultato in termini di salute del paziente.

I precedenti italiani


La polemica può sembrare lontana dalle cose italiane, ma è solo questione di tempi. Fino agli anni ottanta, infatti, in Italia vi era la possibilità, per i medici ospedalieri, indipendentemente dalla loro specialità, di esercitare part-time in ospedale e, se volevano, di accedere alla convenzione per la medicina generale, cioè fare il medico di famiglia. Un sistema che in pratica è simile a quello statunitense, che comportava in effetti gli stessi vantaggi e, in più, si diceva, consentiva al medico un aggiornamento continuo, visto che quotidianamente lavorava a contatto dei colleghi e, insomma, era esposto a un maggior numero di situazioni differenti e a una maggiore circolazione delle idee rispetto a chi è solo nel suo ambulatorio. Non a caso in Israele gli specialisti che lavorano nel territorio sono tenuti a periodi di internato in ospedale per rinfrescare le conoscenze.
Però non è tutto oro quello che riluce, e bisogna considerare che la medicina generale è divenuta a sua volta una specialità e non è detto, per fare un esempio, che un ginecologo fosse il medico di famiglia ideale per un uomo. Senza contare che negli Stati Uniti è fatto comune che il medico debba lasciare l'ambulatorio pieno di persone per correre in ospedale dal suo paziente ricoverato.

Una lamentela comune


Però è interessante notare come anche la polemica statunitense verta su un fatto che viene lamentato un po' ovunque, indipendentemente dal sistema sanitario e cioè la difficoltà con la quale le informazioni si trasmettono tra i diversi medici che assistono il medesimo paziente. In pratica, l'esistenza di compartimenti stagni che a volte possono complicare notevolmente la vita del malato. Probabilmente, oltre a discutere della necessità di investire di più nelle strutture ospedaliere o nel territorio, bisogna preoccuparsi anche di fare in modo che i due livelli si parlino: non è certo frequente il caso del medico di medicina generale che chiama il chirurgo che è intervenuto su un suo paziente, o viceversa. E' vero che non si può passare la vita al telefono ma su questo aspetto pratico dovrebbe intervenire la possibilità di mettere realmente in rete il Servizio sanitario nazionale, non soltanto in termini di controllo della spesa, ma anche per favorire la comunicazione tra ospedale e territorio, tra specialista e medico di famiglia. A quel punto, forse, scegliere se privilegiare l'uno o l'altro aspetto diventerebbe meno urgente.

Maurizio Imperiali



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