Diretto al cervello

07 settembre 2007
Aggiornamenti e focus

Diretto al cervello



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I più anziani ricorderanno che il pugilato, la boxe, è chiamata "nobile arte", o "noble art", visto che i britannici ne rivendicano l'invenzione. E sono proprio i medici britannici, oggi, a chiederne la messa al bando. In effetti però non soltanto da oggi: la British Medical Association fece nel 1981 la sua prima dichiarazione pubblica contro il pugilato, professionistico e dilettantistico; tornò nel 1991 con una nuova campagna, volta a dimostrare che la situazione, quanto a pericolosità, non era cambiata nel decennio. E torna ora con una messe di dati impressionante. Il punto, alla fine, è uno solo: la boxe è l'unico sport il cui fine è causare un danno fisico all'avversario. C'è poco da dire: il ko, tecnico o meno, è il risultato di uno shock inferto al cervello che, sotto l'impatto del colpo inferto alla testa si sposta fino a colpire le pareti interne della scatola cranica. Inoltre, siccome diverse strutture (cervello, vasi, nervi...) si spostano a velocità differenti, quello che si ha è un effetto di rotazione reciproca che aggrava ulteriormente lo shock. D'altra parte, subire un diretto al volto è come essere colpiti da un martello di legno del peso di 6 chili circa che viaggia alla velocità di 32 km/h. Dalla dinamica descritta è facile capire che facciano poca differenza sia l'uso dei guantoni anziché delle mani nude sia indossare il casco come imposto ai dilettanti.

Un danno cumulativo


Non stupisce che la più frequente causa acuta di morte tra i pugili sia l'emorragia cerebrale. Ma se morire sul ring non è poi così raro, c'è chi sostiene che il rischio è inferiore a quello di altri sport, non tenendo però conto del fatto che gli incontri, per un pugile, sono più brevi di una partita di rugby e anche meno frequenti. E poi non c'è soltanto il danno acuto. Nessuno può più mettere in discussione che si è di fronte a un effetto cumulativo dei traumi. Già nel 1974, un'indagine informale dei neurologi britannici aveva censito quanti e quali sportivi erano arrivati all'attenzione degli specialisti con segni di encefalopatia cronica traumatica: 12 fantini, 5 calciatori, due rugbysti, due lottatori professionisti e 294 pugili. Serve altro?
C'è poi da tenere presente un altro fenomeno, che rischia di peggiorare un bilancio già grave: l'arrivo del pugilato femminile e il fatto che non si sia posto un limite di età più elevato. Oggi già a sedici anni si può tirare di boxe ufficialmente e, malgrado si pensi che nei giovani la forza del colpo sia inferiore, e quindi anche i presumibili effetti, già si registrano casistiche di danni cronici in giovanissimi pugili dilettanti. E poi, per chiudere il discorso sui danni cerebrali, basta un dato: l'80% degli ex pugili risente di traumi cerebrali gravi, moltissimi soffrono anche di malattie degenerative, come il Parkinson, l'Alzheimer e la dementia pugilistica. E i danni, in media, si vedono già dopo 16 anni dall'inizio della carriera. Ma non si tratta poi soltanto del cervello: anche vista, udito e olfatto risentono drammaticamente degli insulti dovuti al pugilato. Finché sarà permesso di colpire al di sopra del collo, in definitiva, sarà difficile considerare la boxe "uno sport come gli altri".

Maurizio Imperiali



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