La morte si può decidere?

01 aprile 2005
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La morte si può decidere?



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Dopo il caso Terri Schiavo, una donna della Florida cerebrolesa il cui marito ha chiesto l’autorizzazione a rimuovere la sonda che la tiene in vita, infuria la polemica sull’opportunità di rendere legale l’eutanasia. Se ne è occupato il New York Times, in un articolo in cui viene riscontrata la rivoluzione silenziosa in corso nel paese. Una rivoluzione per la quale molti americani vogliono assumere o stanno assumendo un ruolo attivo nella propria morte. Da soli o con l’aiuto del medico.

Una rivoluzione silenziosa


I numeri dei sondaggi sono sintomatici. Più della metà degli americani, il 65% degli intervistati per la precisione, giudica moralmente accettabile il suicidio clinicamente assistito. Nel 1996 erano solo il 52%. E in Italia? Un recente sondaggio Doxa parla di sei italiani su dieci favorevoli alla legalizzazione dell’eutanasia. Il 78,3% ammette l’eutanasia solo su richiesta del paziente: il 75,3% ritiene che, nel caso in cui il paziente non sia in possesso delle sue facoltà, la decisione spetti alla famiglia. Il 73,5% poi si dice favorevole anche all’introduzione del testamento biologico, che dà la possibilità di esprimere anticipatamente la propria volontà con una dichiarazione scritta che autorizzi il ricorso all’eutanasia. Un dato generalizzabile, perciò. Secondo gli esperti, consultati dal New York Times, l’atteggiamento favorevole al suicidio assistito è destinato a crescere nel momento in cui gli appartenenti alla generazione del baby boom, da tempo abituati a decidere autonomamente della propria vita, vorranno aver voce in capitolo anche sulla propria morte. La contesa è comunque aperta. Permane, infatti, una larga fetta di intervistati contraria per motivi morali o religiosi. Nel sondaggio, pubblicato dal quotidiano statunitense il 41% considerava questa pratica moralmente sbagliata e lo stesso Bush ha contestato la legge dello stato dell’Oregon che, unica negli Usa, autorizza il suicidio assistito. Sulla stessa lunghezza d’onda, alle nostre latitudini, si sono espressi gli anestesisti rianimatori italiani, i quali denunciano proprio l’assenza di una normativa riguardante la sospensione di cure a pazienti senza alcuna possibilità di una normale vita di relazione. Dall’indagine condotta sui medici pare, infatti, che nel 48% dei casi le scelte operative dei camici bianchi siano in gran parte influenzate dalla paura di subire conseguenze legali. La mancanza di normative precise, di linee guida e di protocolli in materia condiziona ancora di più i medici. A volte, dice al New York Times Deborah L.Volker, assistente presso la scuola infermieristica dell’Università del Texas, tra medico e paziente si svolge un dialogo implicito che sfocia in un tacito accordo: “Concediamo tutto ciò che serve per alleviare la sofferenza e non entriamo nel merito della questione se ciò vada o meno in direzione di accelerare la morte”. Giusto? La risposta è tutt’altro che semplice e le contrapposizioni ideologiche risolvono poco. Un fatto sicuro – come affermato da Paolo Cattorini, professore di Bioetica presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi dell’Insubria - è che è la persona che è sacra non la vita fisica. Aver cura di una persona, così, significa rispettarne corpo e libertà e non semplicemente rimandare in forme accanite la morte o accettare fatalisticamente i tempi dei processi biologici.

Marco Malagutti



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