Staminali promettenti

06 ottobre 2006
Aggiornamenti e focus

Staminali promettenti



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L'impiego di cellule staminali nel trattamento dell'infarto miocardico è una prospettiva realistica e c'è spazio per un cauto ottimismo. A dirlo sulla base dei risultati di tre nuovi trial clinici, sottolineando l'assoluta necessità di ulteriori studi, è Antony Rosenzweig dell'Harvard Stem Cell Institute di Boston, nell'editoriale d'accompagnamento sul New England Journal of Medicine. Tra le tante aspettative suscitate dalle staminali, o stem-cell, la possibilità di usare cellule progenitrici ottenute dal midollo osseo del paziente stesso (autologhe) per riparare il tessuto muscolare cardiaco danneggiato dall'infarto, è uno dei temi più caldi di questo campo di ricerche, finora contrassegnato però da un altalenare di risultati che vanno da molto promettenti a incerti a deludenti. Un andamento in chiaroscuro in parte presente anche nei tre nuovi lavori definiti comunque da Rosenzweig pietre miliari nell'evidenziare la necessità di rispondere a questo punto della ricerca a quesiti clinici fondamentali per capire se questa potrà essere una strategia terapeutica di successo, senza cedere né a prematuri entusiasmi né a tentazioni di rinuncia. Due studi riguardano l'infusione intracoronarica di cellule staminali ricavate dal midollo osseo del paziente in soggetti colpiti da infarto miocardico acuto (IMA), un altro la stessa somministrazione o quella di staminali da sangue circolante in persone con insufficienza cardiaca cronica in seguito a IMA.

Funzione ventricolare migliorata


Il primo trial in particolare, illustrato all'ultimo meeting dell'American Heart Association è il più ampio di questo tipo finora condotto, dopo diversi studi pilota, e come commenta l'editoriale costituisce al momento la migliore evidenza dei benefici di questo approccio nel trattamento degli infartuati. Denominato REPAIR-AMI, lo studio multicentrico tedesco coordinato dall'Università Goethe di Francoforte ha coinvolto 204 pazienti che avevano subito un IMA con segmento ST elevato (un parametro elettrocardiografico) e presentavano una scarsa frazione di eiezione del ventricolo sinistro (LVEF, indice della disfunzione contrattile indotta dall'infarto), ai quali sono stati somministrati da tre a sette giorni dopo l'abituale intervento di riperfusione sanguigna o le staminali prelevate dal midollo osseo e coltivate o un placebo. Quattro mesi dopo, i trattati con le stem-cell, un misto di cellule, hanno mostrato un miglioramento significativo delle LVEF rispetto al placebo, maggiore proprio per quelli che avevano i valori più bassi. Quest'ultimo aspetto e il fatto che la riduzione della LVEF nella fase acuta dell'infarto resta uno dei principali fattori infausti nonostante i progressi della terapia di riperfusione, potrebbe suggerire questo approccio come più indicato nei casi di IMA esteso e con funzione ventricolare più compromessa. A distanza di un anno, inoltre, si è riscontrata una riduzione degli eventi cardiaci combinati cioè morte, reinfarto, rivascolarizzazioe.
Dello stesso segno i risultati dello studio TOPCARE-CHD, eseguito nello stesso centro, nel quale si sono confrontati gli effetti di staminali ottenute da midollo osseo, o da sangue circolante, in confronto a placebo, infuse per via transcoronarica in 75 pazienti con disfunzione ventricolare cronica in seguito a IMA. Dopo tre mesi i valori di LVEF sono migliorati significativamente nei trattati con le stem-cell da midollo osseo rispetto a tutti gli altri, con un aumento della contrattilità nell'area dell'infusione e della funzione cardiaca globale, suggerendo che queste cellule potrebbero avere effetti al di là di quelli riparativi.

Molti aspetti ancora da chiarire


Contrastante invece la conclusione dello studio ASTAMI, condotto a Oslo, nel quale 100 pazienti con IMA e innalzamento ST sono stati suddivisi in un gruppo trattato con iniezione intracoronarica di staminali autologhe mononucleari di midollo osseo, da quattro a otto giorni dopo l'intervento di rivascolarizzazione, e in un gruppo controllo non trattato. A distanza di sei mesi dall'IMA, la LVEF non è migliorata nei primi in confronto ai secondi e non c'è stata differenza neppure riguardo ad altri parametri: un'ipotesi è che il risultato diverso dal REPAIR-AMI si leghi a differenze tecniche di preparazione e uso delle cellule infuse. Ma questo riconduce ai quesiti in attesa di risposta, dall'identificazione dei componenti cellulari necessari per l'efficacia dell'infusione da midollo osseo, a quella di altri fattori (come quelli di crescita o le citochine) o cellule coinvolti, da quella delle modalità ottimali del trattamento, a quella del profilo di paziente che potrebbe maggiormente giovarsi di questo approccio. La via da percorrere è ancora lunga.

Elettra Vecchia



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