Morfina killer? Sì ma del dolore

27 aprile 2007
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Morfina killer? Sì ma del dolore



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Per quanto se ne possa discutere in termini etici, farmacologici e clinici, la morfina è e resta l'analgesico più efficace ed efficiente (in termini di costo-efficacia) per la terapia antidolore nei pazienti oncologici e per la terapia palliativa in generale. Lo disse l'Organizzazione mondiale della sanità nel 1987, lo confermano i dati sui consumi globali che prima di tale intervento erano di 3,3 tonnellate (1985) e che nel 2004 hanno raggiunto le 28,7 tonnellate. Intervento che si rese necessario dal momento che circa 20 anni fa i comportamenti nella prescrizione di analgesici da parte dei medici sfioravano la fobia verso la morfina, al punto che un farmacologo inventò la parola oppiofobia.

Non uccide ma allevia

Superata quella fase, dati alla mano, resta comunque vivo il senso di ansia nei pazienti e nei medici sugli effetti della morfina che impedisce l'adeguato accesso alle terapie del dolore, lo afferma un medico di un ospedale londinese che firma un commento comparso sulla rivista The Lancet. E sottolinea quali sono le motivazioni principali di questa sopravvissuta diffidenza. La prima è la paura di fenomeni di assuefazione, un rischio che secondo la letteratura resta sotto lo 0,01%, ma spaventa sia il pubblico che i professionisti. L'altra, che invece conoscono per lo più i medici, è la possibilità di depressione respiratoria. Una delle possibili conseguenze è che, in via del tutto confidenziale, dice il medico londinese, alcuni suoi colleghi ammettono di aver messo fine alla vita dei loro pazienti terminali per mettere fine anche alle loro sofferenze. Complice di questi timori lo è anche la cronaca anglosassone: il caso del dottor Harold Shipman, chiamato anche Dottor Morte, che uccideva le sue vittime con elevate dosi di morfina ha alimentato il senso di inquietudine tra i medici inglesi. Non sorprende quindi che per l'opinione pubblica, somministrare morfina, per altro a dosi sempre maggiori, sia sinonimo o comunque nasconda l'intenzionalità di veder morire il paziente. Niente di più falso, in realtà, come dimostra uno studio americano, che ha dimostrato l'esatto contrario. In 725 malati terminali di strutture ospedaliere con tumori, patologie polmonari o cardiache seguiti fino al decesso, la sopravvivenza era positivamente correlata al massimo dosaggio di oppioidi quotidiano. Anche quando si superavano 1,8 grammi al giorno, e la dose non aveva correlazioni con la sopravvivenza. Lo stesso risultato si verificava in altri studi più piccoli, ma sovrapponibili che andavano nella stessa direzione verificando che non c'erano differenze di sopravvivenza variando la dose di morfina.

Accessibile a tutti

Inoltre solo i pazienti che non sono mai stati trattati con morfina rischiano depressione respiratoria, ma la prassi, che protegge da questo rischio, è quella di somministrare dosi incrementali. Le perplessità del medico inglese sono rivolte sia al mondo industrializzato dove comunque resta inadeguato il ricorso alle terapie del dolore, sia alla parte più povera del mondo dove l'accesso alla morfina è limitato o del tutto assente.
A questi aspetti si sovrappone anche il timore da parte dei governi di un mercato illecito della morfina, ma se gli stessi medici per le loro ansie la scartano come prima scelta è inevitabile che ci si orienti su altre molecole oppiacee che oltre ad avere costi più elevati (10 grammi di morfina costano un centesimo di dollaro) hanno effetti collaterali simili. Ed è evidente che il primo effetto è quello di aumentare la discrepanza nelle realtà più povere.

Simona Zazzetta

Fonte

  • Sykes NP. Morphine kills the pain, not the patient The Lancet 2007; 369:1325-1326



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