Il sintomo che toglie le forze

11 aprile 2003
Aggiornamenti e focus

Il sintomo che toglie le forze



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E' uno dei sintomi sempre o quasi sempre presenti nel malato di cancro, eppure è uno dei più sottodiagnosticati; anche perché è spesso lo stesso paziente a non considerarlo una conseguenza della malattia e a non parlarne col curante. Si tratta della fatigue, una condizione che non è facile nemmeno inquadrare, come ha spiegato nel corso del X Congresso nazionale della Società Italiana di Cure palliative, il dottor Gianfranco Ferrero del Centro Onco-Ematologico subalpino dell'Ospedale S.Giovanni Battista di Torino. "Come tradurre il termine Fatigue?" ha detto Ferrero "Letteralmente andrebbe fatto con il termine affaticamento, ma i sinonimi utilizzabili sono molti di più: astenia, debolezza, esaurimento, stanchezza, eccetera. Questa numerosità di termini può essere indicatrice di un'entità variabile, sfumata, poco definita, negli aspetti come nelle cause; in generale possiamo definirla come una diminuzione della capacità lavorativa ed una minore efficienza di risposta agli stimoli, che nella sua entità può essere anche dipendente dal tipo di tumore e dalla sua estensione." Un insieme di limitazioni fisiche e psicologiche fortemente invalidanti, dunque, tali da compromette la qualità della vita anche quando il trattamento è efficace e, quindi, si hanno discrete possibilità di guarigione. Che non si tratti di una spossatezza normale lo provano anche i risultati di due indagini condotte tra Stati Uniti e Irlanda, nelle quali il 19% dei pazienti oncologici statunitensi e il 10 di quelli irlandesi ha dichiarato che a volte il disturbo è così forte da desiderare la morte.
In Italia, secondo un'indagine del Cergas dell'Università Bocconi di Milano, la situazione è analoga a quella internazionale. La fatigue riguarda il 90,3% dei pazienti raggiunti attraverso 104 centri oncologici; tuttavia solo il 38,8% del campione ne parla sempre con il suo medico. Analogamente la depressione, sofferta nell'85% dei casi, ma dichiarata solo dal 19,2% dei pazienti.

Una condizione poco studiata


Mentre per il dolore è ormai chiaro da tempo che si deve intervenire in modo mirato, e che è necessario studiare in modo rigoroso le diverse opzioni, sulla fatigue poco si è fatto. Secondo una recente review, dal 1980 al 2002 sono stati pubblicati circa 3000 articoli sul dolore collegato ai tumori, e solo 45 sulla fatigue. Va chiarito peraltro che il disturbo non riguarda soltanto i malati oncologici, ma anche chi soffre di altre condizioni potenzialmente fatali, dalla sclerosi laterale amiotrofica all'AIDS.
Quello che oggi è dato per certo è che alla fatigue concorrono diversi aspetti. Per esempio la depressione, tipica del malato oncologico, rinforza la condizione, così come la somministrazione di analgesici. Per questo oncologi e palliativisti ritengono che il ricorso agli antidepressivi possa almeno in parte alleviare la fatigue. Anche le turbe del sonno (sia l'incapacità ad addormentarsi sia il risveglio precoce) hanno un ruolo. In questo caso, però, più che a supporti farmacologici, si punta a eliminare l'uso di caffeina, alcol, nicotina, così come a rieducare al sonno fisiologico il paziente: restare a letto non più di 6-8 ore e limitare i sonnellini diurni a 15-20 minuti, per esempio.

Quali rimedi e in quali situazioni


E' chiaro che esistono sostanze in grado di far aumentare l'attività dell'organismo e anche, in parte, le attività cognitive: è un po' quello che fanno gli antidepressivi ma anche psicostimolanti come il metilfenidato o i derivati dell'anfetamina. E' stata tentata anche questa via, ma gli effetti collaterali sono tali che è stata abbandonata. Anche l'uso degli steroidi anabolizzanti (cortisonici) è stato tentato, soprattutto nei malati ormai inguaribili. In effetti queste sostanze hanno anche un'azione per così dire "aspecifica" su tutto l'organismo. Anche in questo caso, però, gli effetti collaterali, soprattutto quelli dovuti all'uso a lungo termine sono tali (per esempio la miopatia) che vengono considerata l'ultima risorsa, riservata di solito ai pazienti terminali.
In definitiva, due sembrano essere le opzioni praticabili, o almeno è quello che concludeva una consensus conference organizzata dagli NIH nel luglio 2002. La prima è l'attività fisica; sperimentati soprattutto nelle donne colpite da carcinoma al seno, programmi personalizzati di attività aerobica come il nuoto o la bicicletta riducono la spossatezza fisica. Del resto, anche nella broncopneumopatia cronica ostruttiva, nella quale i pazienti sperimentano un'analoga spossatezza, forme di ginnastica respiratoria hanno dato risultati positivi anche sulla qualità della vita.
Il secondo aspetto è il trattamento dell'anemia - che ha uno spiccato effetto debilitante - spesso secondaria alla malattia, soprattutto quella ematologica, o alla terapia antitumorale. In questo caso, stabilita la causa dell'anemia, si può procedere a seconda dei casi a terapia a base di ferro o anche alla somministrazione dell'eritropoietina alfa, sostanza capace di promuovere la produzione di globuli rossi.
Ancora non basta, ma almeno si è cominciato a farsi carico di questo aspetto centrale nella qualità della vita del paziente.

Maurizio Imperiali



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