Obesi non sempre a rischio

05 settembre 2008
Aggiornamenti e focus

Obesi non sempre a rischio



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Senza perdere il suo valore, continua a modificarsi il profilo dell'equazione tra obesità e rischio cardiovascolare. E le sfumature non dipendono dal numero dei chili di troppo, ma da come sono distribuiti nel corpo, differenza che spiegherebbe perché non tutte le persone obese sviluppano patologia cardiovascolare. L'ipotesi non è certo nuova, fu descritta da un medico francese circa 50 anni fa che aveva osservato due diverse modalità di distribuzione del grasso corporeo: androide, cioè addominale centrale, localizzata nella parte alta del corpo, e ginoide, localizzata all'altezza dei glutei e delle cosce. Secondo i suoi studi, la distribuzione androide esponeva a maggiore probabilità di complicanze cardiovascolari e metaboliche.

Nei posti giusti


Dagli anni '80 in poi queste osservazioni sono state più volte confermate da altri studi e, in parallelo, altre linee di ricerca hanno dimostrato che resistenza insulinica, intolleranza al glucosio e anomalie lipidiche, segni tipici di sindrome metabolica, si accompagnavano alla forma androide dell'obesità. Tale accumulo è il risultato di un'incapacità del tessuto adiposo (localizzato sotto la cute) a immagazzinare in modo appropriato l'eccesso di energia che alimenta depositi di grasso intraddominale, in localizzazioni diverse da quella fisiologica, cioè ectopiche, come il fegato o i muscoli scheletrici. Questa circostanza non fa che aumentare il rischio di diabete di tipo 2 e di patologie cardiovascolari. Mentre, quando l'eccesso di energia è indirizzato verso i depositi adiposi sottocutanei oppure, o successivamente, utilizzata nel fegato o nei muscoli, per quanto ci sia un eccesso energetico, la salute metabolica e cardiovascolare del soggetto resta protetta. La possibilità di individuare nello spettro dell'obesità, una finestra di benessere metabolico è stata confermata anche da uno studio tedesco che ha misurato il grasso totale, viscerale e sottocutaneo in circa 300 soggetti, e la sensibilità insulinica.

Il normopeso non basta


Il campione di soggetti è stato suddiviso in quattro tipologie: soggetti normopeso (indice di massa corporea, IMC <25,0), sovrappeso (imc, 25,0-30,0), obesi (imc, >30,0) con sensibilità e resistenza insulinica. La sensibilità insulinica era associata a un minor accumulo di grasso ectopico, in particolare a quello che avrebbe potuto interessare il fegato, e a un minor spessore della tonaca Intima-Media della parete della carotide (marcatore di aterosclerosi). Diversamente da quanto si attendevano, cioè un calo della sensibilità insulinica nei soggetti obesi, i ricercatori hanno rilevato che questo parametro non differiva in modo significativo nel 25% della popolazione in sovrappeso, come se la loro condizione fosse, nonostante il peso, metabolicamente benigna. Caratterizzata, appunto, anche dalla distribuzione non ectopica del grasso corporeo. La misura dell'adiposità viscerale può, quindi, rappresentare un valido strumento per discriminare tra soggetti con diversa sensibilità insulinica nello spettro tra il normopeso e il sovrappeso. Soprattutto quando, nella stessa popolazione americana, notoriamente interessata dal fenomeno, si possono individuare quote relativamente alte di soggetti a rischio anche nella popolazione normopeso. Da un'indagine è emerso che le percentuali di uomini e donne obesi e normopeso con anomalie cardiometaboliche, sono molto simili, o comunque non differenti quanto ci si aspetterebbe: il 29,2% degli uomini obesi e il 35,4 delle donne obese e il 30,1% degli uomini normopeso e il 21,1% delle donne normopeso. E le problematiche metaboliche erano associate all'età, al fumo e alla circonferenza della vita, misura molto sbrigativa dell'adiposità addominale.

Simona Zazzetta



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