Medicine su misura? No, geniali

23 novembre 2005
Aggiornamenti e focus

Medicine su misura? No, geniali



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Chi è preoccupato per i casi di ritiro dal mercato di farmaci che parevano sicuri e non lo sono stati, si segni questo termine: farmacogenomica. E' su questa nuova branca della ricerca che si appuntano, infatti, le attese di chi chiede farmaci mirati alle cause delle malattie e intrinsecamente più sicuri. Non è da oggi che se ne parla, ma è oggi che incominciano a scaldarsi i motori, come testimoniano molti indizi, per esempio un editoriale degli Archives of Internal Medicine, che non è una rivista dedicata alla farmacologia, anzi. Però, per cominciare è bene chiarire che la farmacogenomica è lo studio del modo in cui le variazioni genetiche individuali possono influenzare l'efficacia, il metabolismo e la sicurezza del farmaco introdotto dall'organismo. Sarà questa, probabilmente, la prima applicazione "pratica" del progetto genoma, visto che le case di punta nel settore biotecnologico stanno già impiegando queste tecniche. La differenza rispetto agli studi degli anni cinquanta, quando si parlava di farmacogenetica, sta nel fatto che oggi si possono considerare le interazioni di moltissimi geni (teoricamente anche tutti) con il medicinale e, soprattutto, non ci si limita più al metabolismo del farmaco, ma proprio al suo modo di agire. L'esempio più immediato è quello dell'ipertensione, un disturbo che conosce diversi meccanismi: alterazioni del sistema renina-angiotensina, il riassorbimento del sodio, la funzione endoteliale. Oggi esistono farmaci che coprono più o meno tutti questi meccanismi, ma non tutti funzionano in tutti i pazienti. Un test genetico, che individui quali sono i tratti che portano allo sviluppo di questo o quel meccanismo potrebbe aiutare a prescrivere a colpo sicuro il farmaco giusto alla persona giusta. Ma non è solo questo: se si potesse sapere che un farmaco, pur efficace, ha effetti collaterali soltanto nei portatori di una certa caratteristica genetica, sarebbe possibile testare il paziente prima di cominciare la terapia e rivolgersi dunque a una sostanza che si comporti differentemente.

La tecnologia sarà cruciale


Lo sviluppo effettivo della farmacogenomica ovviamente dipende dalla capacità di identificare le variazioni genetiche in modo rapido e, possibilmente, economico. D'altra parte non si tratta soltanto del farmaco, anche la prevenzione in senso ampio ne beneficerebbe: è il caso dei geni implicati nello sviluppo di certi tumori (esiste per esempio un gruppo non trascurabile di pazienti con tumori del polmone che non sono mai stati esposti al fumo), e ci sono anche tanti altri casi in cui per ora ci si rifà al concetto di etnia (o razza come dicono più disinvoltamente gli anglosassoni) che invece potrebbe essere reso più dettagliato. Obiettivamente non sono test di semplice realizzazione, ma negli ultimi anni i cosiddetti biochip, che consentono di sottoporre contemporaneamente a screening genetico centinaia di campioni diversi per una singola mutazione (o un solo campione per centinaia di mutazioni) hanno consentito di aumentare in modo impensabile la rapidità. Quanto al costo, oggi per i test disponibili si parla di 100 euro a paziente circa. Tanto? Poco? In questo senso tutto dipende dal termine di paragone: quanto costa una terapia sbagliata? Inizialmente, anche le metodiche di diagnostica per immagini oggi di routine, basti pensare alla TAC, erano costose, scarsamente accessibili e altro ancora. La storia ha dimostrato che i costi, con la tecnologia, scendono rapidamente.

Aumenteranno i costi? Non è detto


Un ostacolo potrà venire, forse, dalla necessità per il mondo farmaceutico di cambiare le strategie finora adottate per scoprire nuovi farmaci. Per cominciare, e ci sono già indizi in questo senso, potrebbe divenire obbligatorio inserire test genetici nel corso della sperimentazione, per suddividere i campioni in base al profilo genetico, e questo aumenterà i costi. D'altra parte, nelle fasi successive si risparmierà, perché si eviterà di proseguire la sperimentazione su molecole inefficaci o con campioni di pazienti che già in partenza si sa che non beneficerebbero di quel farmaco. In questo modo, si stima che potrebbero essere risparmiati fino a 500 milioni di dollari per ogni nuovo farmaco registrato. Un altro aspetto riguarda i potenziali utenti. Oggi qualsiasi casa farmaceutica spera di trovare un farmaco valido per tutti, domani invece potrebbero esserci soltanto prodotti di nicchia, cioè rivolti a una certa fascia di popolazione colpita dalla malattia. Non tutti gli ipertesi, per esempio, ma solo quelli con un certo profilo. Questo porterebbe a un innalzamento del costo del prodotto, visto che godrebbe di vendite inferiori. Però, rovesciando il discorso, non potrebbe più accadere che un farmaco pensato per tutti si riveli inaspettatamente adatto a una parte soltanto dei malati, cosa che all'azienda costa enormemente. Non è un'ipotesi: è quello che è successo con gefitinib, un antitumorale rivolto al tumore del polmone a cellule non piccole. In realtà si è visto che funziona ma solo in chi presenta una certa mutazione di un gene che codifica per il recettore del fattore di crescita dell'epidermide. E poi, grazie alla possibilità di capire fino in fondo l'effetto di una sostanza, la cascata di eventi che mette in moto, è possibile che una sostanza pensata per una certa malattia si riveli capace di curarne anche un'altra. E' successo con l'imatinib, studiato per la leucemia mieleoide cronica e poi dimostratosi attivo su certi tumori dell'intestino.Ovviamente è anche possibile che tra risparmi e nuovi investimenti, alla fine i prezzi salgano. Però, come scrisse qualche tempo fa Giuliano Zincone sul Corriere della sera "Se i soldi non si spendono per la salute, per che cosa si dovrebbe spenderli?". Bella domanda.

Maurizio Imperiali



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