Trasmissione materno-infantile

29 novembre 2002
Aggiornamenti e focus

Trasmissione materno-infantile



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Una delle notizie più allarmanti venute dal XVI Congresso Nazionale ANLAIDS (Torino 23-26 novembre 2002) è la ripresa dei casi di contagio da HIV materno infantile. Casi che, per inciso, riguardavano mamme italiane, tre delle delle quali non erano al corrente di avere contratto l'infezione. I casi sono stati registrati in Piemonte e in Sicilia. Dall'inizio dell'epidemia al 2002 il contagio perinatale ha totalizzato in Italia 715 casi. Eppure attuando le misure opportune, nel 98% dei casi dalle madri sieropositive nascono bambini sani.

Come avviene il contagio


Una madre sieropositiva può trasmettere il virus HIV al suo bambino durante la gravidanza, al momento del parto e con l'allattamento al seno. La via di contagio più frequente è quella durante il parto naturale (per via vaginale), di conseguenza se la nascita avviene con intervento cesareo decresce la percentuale di bambini infettati. Le stime di neonati contagiati alla nascita variano ampiamente, dal 12,9% in Europa al 45-48% in Africa, come conseguenza della carica virale materna, di eventuali complicazioni al momento del parto e della disponibilità di farmaci durante e dopo la gravidanza. Durante il parto un travaglio prolungato, un lungo intervallo tra la rottura delle acque e la fuoriuscita del bambino, eccessive lacerazioni della parete vaginale e della cervice uterina, sono tutti fattori che aumentano l'esposizione del neonato al sangue materno, accrescendo il rischio d'infezione.
Quando la madre si trova in uno stadio avanzato della malattia, con valori plasmatici di RNA virale molto elevati, bassa conta linfocitaria e carenza di vitamina A, il rischio di trasmissione è massimo; si riduce invece al 3% quando la viremia scende sotto le 100.000 copie per ml.
Il contagio tramite allattamento al seno, invece, è causato dalla presenza dell'HIV sia nel colostro sia nel latte; il rischio oscilla dal 7 al 22% e, ancora una volta, il valore maggiore riguarda i nati da madri fortemente immunodepresse.

Le condizioni che lo favoriscono


Come ormai tutti sanno, il contagio da madre a figlio è un problema di estrema gravità nei paesi sottosviluppati, specie nel continente africano, per almeno due motivi. Primo fra tutti la scarsità di risorse economiche, naturali (acqua e cibo), logistiche (mezzi di trasporto e ospedali), rende poco accessibili i farmaci e i test e di fatto impossibile l'uso di latte in polvere nei primi anni di vita. Secondo, perché diretta conseguenza del primo, ma determinante il dato statistico: le donne sieropositive sono in numero pari agli uomini. Questo era un tempo un aspetto esclusivo del Sud del mondo, mentre ora la tendenza all'aumento della sieropositività nella popolazione femminile si sta presentando anche nei paesi industrializzati e anche in Italia. Di qui le raccomandazioni generalizzate a eseguire il test in previsione di una gravidanza. Del resto, nel caso in cui solo il partner maschile risulti sieropositivo, è possibile avere un bambino affidandosi a tecniche di fecondazione artificiale.

I rimedi possibili

La trasmissione verticale, da madre a figlio, del virus HIV può essere prevenuta con l'impiego di farmaci antiretrovirali e con il ricorso ai latti artificiali; tuttavia, anche quando questi presidi sono accessibili, la terapia farmacologica non è mai di facile attuazione. Tuttavia recentemente le linee guida internazionali hanno notevolmente allargato l'indicazione pediatrica e anche perinatale dei farmaci antiretrovirali. Il trattamento standard prevede la somministrazione di zidovudina (AZT) alla madre, nel secondo e terzo trimestre di gravidanza e durante il travaglio, al neonato per le prime sei settimane di vita. Questo protocollo riduce del 70% il rischio di contagio, non provoca fenomeni di tossicità fetale o neonatali ed è ben tollerato dalla madre. Un tale schema terapeutico è estremamente costoso, quindi insostenibile nei paesi sottosviluppati, e non è nemmeno il più efficace per la cura dell'adulto. Attualmente si impiegano anche la lamivudina e la dideossiadenosina, tutti inibitori della transcrittasi inversa come l'AZT. Quanto meno in casi particolari si ricorre anche agli inibitori delle proteasi (nelfinavir, ritonavir).

Le acquisizioni più recenti

Si chiama nevirapina il farmaco che, secondo i ricercatori, potrebbe arrestare il contagio dilagante dei neonati africani. La molecola è il capostipite degli inibitori non nucleosidici della transcrittasi inversa ed è risultata particolarmente efficace nell'inibire la trasmissione materno-infantile del virus. Questo farmaco, già utilizzato negli adulti, viene somministrato alle madri al momento del parto e al neonato entro le 72 ore successive alla nascita. Una singola dose è sufficiente per proteggere il neonato per una settimana e, analogamente, si ritrova nel sangue e nel latte materno per i 7 giorni seguenti. Si tratta di un trattamento d'emergenza per donne mai sottoposte a precedenti terapie antiretrovirali, alle quali la diagnosi di sieropositività giunge spesso a gravidanza avanzata. In questi casi la nevirapina si è dimostrata molto più efficace della zidovudina nel ridurre la trasmissione verticale dell'infezione, inoltre presenta altri vantaggi: è somministrabile per via orale, disponibile in formulazione pediatrica, ha un costo decisamente contenuto e presenta una discreta maneggevolezza.

Elisa Lucchesini

Fonti
  • Harrison's Principles of Internal Medicine 14th Edition Mc Graw Hill
  • Aggiornamento delle linee guida sulla terapia della infezione da HIV (GU maggio 1998)Guidelines for the use of antiretroviral agents in pediatric HIV infection. Centers for Disease Control and Prevention. aprile 1999 Apr (aggiornato dicembre 2001)



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