Vita e morte di campagna

31 luglio 2008
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Vita e morte di campagna



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Brutta cosa avere un ictus in campagna, negli Stati Uniti e probabilmente non soltanto lì. E' la conclusione di una review recentemente pubblicata sugli Archives of Neurology, che hanno preso in considerazione tutti gli studi pubblicati sul trattamento dell'ictus nelle zone rurali, cioè in centri con meno di 2500 abitanti. Il tema riveste un particolare interesse, oltre che per il consueto confronto tra città e aree extraurbane, anche perché sono proprio le popolazioni di queste aree rurali, circa il 25% di tutta la popolazione statunitense, a presentare un rischio di ictus più elevato, a causa delle peggiori condizioni cardiovascolari, della maggiore frequenza di diabete e altro. L'analisi ha mostrato alcuni dati che ai non tecnici possono sembrare sorprendenti. Per esempio, non è vero che la causa principale del trattamento non adeguato agli standard sia la mancanza delle tecnologie: anche nei dipartimenti di emergenza dei piccoli ospedali rurali sono presenti laboratori di analisi attivi 24 ore al giorno, e la presenza della TAC non è rara.

Poca dimestichezza con la trombolisi


Piuttosto, a determinare le maggiori differenze è la confidenza dei medici nell'impiego di quella che per ora è la terapia di elezione, cioè la trombolisi con rTPA (un farmaco in grado di sciogliere il trombo). Il fatto è, dicono gli autori, che gran parte degli studi è stata condotta nei grandi centri specializzati, ma non vi è stata una disseminazione della cultura accumulata su questo aspetto. Un problema di formazione dunque, che si estende anche alla gestione generale del paziente colpito da ictus. Non è invece sorprendente che il personale che effettua il primo soccorso, i paramedici resi celebri anche da molti telefilm, siano mediamente meno preparati a riconoscere questo tipo di emergenza e che, trattandosi spesso di volontari, non abbiano nemmeno programmi di addestramento e aggiornamento adeguati. Insomma, per ora non pare che sia la dotazione tecnologica il nodo centrale, ma solo per ora, perché se in futuro si imponessero altre terapie di prima linea, per esempio la trombolisi endoarteriosa o con mezzi meccanici (il palloncino) il divario potrebbe ampliarsi. Le soluzioni proposte sono diverse e alcune sono anche a portata di mano.

Basta anche un telefono


Per esempio, si potrebbe affiliare un certo numero di ospedali rurali a un centro di riferimento, così che anche semplicemente al telefono il neurologo esperto possa guidare il medico sul campo all'esecuzione della trombolisi che è cosa tecnicamente fattibile, anche se mancano studi controllati su questa direzione a distanza. Il passo successivo sarebbe la messa in campo di sistemi di telemedicina che consentano anche la trasmissione delle immagini diagnostiche ma, ovviamente, a un costo più elevato.
Una volta attuato l'uno o l'altro sistema resta poi la scelta tra il curare in sede il paziente anche dopo la trombolisi oppure se stabilizzarlo e inviarlo a un centro specializzato (sistema detto drip and ship, cioè scoagula e spedisci). Quest'ultimo sistema, che offre una maggiore sicurezza in caso di complicanze, potrebbe trovare un ostacolo di natura economica, in quanto, sempre secondo gli autori, non è detto che il piccolo ospedale accetti come normale una diminuzione dei rimborsi sulle cure. La soluzione, ancora una volta, è nella preparazione del personale anche se, in questo caso, a proposito delle implicazioni etiche e legali della scelta di non trasferire una persona alla quale non si possono prestare tutte le cure di cui ha bisogno. Che non sembra essere un tema solo statunitense, e nemmeno soltanto rurale.

Maurizio Imperiali



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