Da spezzare il cuore

22 luglio 2005
Aggiornamenti e focus, Speciale Depressione

Da spezzare il cuore



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Il legame tra cuore e depressione non è soltanto metaforico. E' stato infatti riscontrato che la presenza di questo disturbo dell'umore determina un aumento delle probabilità di morte in caso di angina stabile, oppure dopo l'esecuzione di bypass coronarici e, immancabilmente, dopo l'infarto. E non si tratta di un aumento del rischio di poco conto. Nel caso dell'infarto, la depressione pesa tanto quanto il fatto che il paziente non sia al suo primo "attacco di cuore", oppure quanto la presenza di una disfunzione del ventricolo sinistro. Messa in termini numerici, uno studio aveva dimostrato che le persone depresse avevano una probabilità quattro volte superiore di morire entro sei mesi dall'infarto. Insomma, un aggravante da temere.

Cuori accelerati


Meno chiare sono sempre state invece le ragioni per cui questo effetto si produce, o meglio se c'era un passaggio intermedio tra depressione e morte cardiovascolare. A questa domanda ha cercato di rispondere uno studio che ha messo a confronto più di 300 pazienti depressi colpiti da infarto con circa 400 pazienti reduci da infarto ma esenti da sintomi depressivi. Il sospetto che guidava lo studio era che la depressione potesse essere messa in rapporto con un altro fattore di rischio che peggiora la prognosi in questi casi, e cioè la bassa variabilità del ritmo cardiaco (HRV). Infatti il cuore varia la frequenza delle pulsazioni in funzione di molte variabili, alla fine legate però all'attività del sistema nervoso autonomo, cioè quello che sfugge al comando del cervello, che si articola in simpatico, che accelera, e parasimpatico, che frena. Anche in questo caso studi precedenti avevano mostrato che quando la variabilità è bassa, a causa di un'eccessiva attività del simpatico e/o una certa pigrizia del parasimpatico. Inoltre, la presenza di una bassa variabilità si era dimostrata un fattore di rischio indipendente per il cattivo esito dopo infarto.

Una spiegazione parziale


I ricercatori, dunque, hanno calcolato di quanto aumentava il rischio di morte per i pazienti depressi rispetto a quelli non depressi, il tutto nell'arco di 30 mesi, periodo nel quale si sono verificati in totale 47 decessi. In effetti, la condizione mentale faceva aumentare di 5,5 volte il rischio di morte a 2 e 3 anni, il che confermava le ricerche precedenti. Però, se i risultati venivano depurati dall'effetto dell'HRV bassa (misurata con il tracciato elettrocardiografico delle 24 ore), il rischio determinato dalla sola depressione scendeva a 3,1 volte. Insomma, la depressione contava meno, o meglio contava ancora, ma probabilmente anche attraverso l'effetto che ha sulla HRV. Inoltre, sia la bassa HRV sia la depressione avevano effetti più modesti nel primo anno dopo l'evento. Un bel rebus: potrebbe essere che nel primo anno i pazienti sono trattati più aggressivamente, e loro stessi siano più scrupolosi nell'assumere farmaci o seguire una dieta. Potrebbe esserci anche un effetto dei medicinali antidepressivi, alcuni dei quali, triciclici e anti MAO, sono cardiotossici. Però questo si sa da tempo, e ai cardiopatici non vengono prescritti. Restano i più moderni serotoninergici, che non paiono avere effetti sul cuore. Tra l'altro, ci sono dati che la psicoterapia, nel curare la depressione, provochi anche un miglioramento della variabilità della frequenza cardiaca. Ma questo basta a ridurre il rischio, visto che poi l'HRV non spiega tutto l'effetto della depressione, ma solo una parte? Come spesso tocca concludere, servono altre ricerche sugli effetti della terapia della depressione sul destino di chi ha subito un infarto.

Maurizio Imperiali



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