Basta un poco di zucchero

08 settembre 2020
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Basta un poco di zucchero



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Definito nella letteratura scientifica come una sostanza priva di una attività farmacologica specifica, somministrata per controllo nei test clinici o ad un particolare paziente per stimolare potenziali benefici psicologici, il placebo rimane per molti un mistero, se non, per i più drastici, un mito privo di qualsiasi potenziale terapeutico. A poco a poco, però, gli scienziati si stanno avvicinando alla risoluzione di questo mistero che è fatto sì di suggestioni e desiderio di guarigione, ma anche di una sofisticata rete di molecole che si nasconde dietro i rapporti tra mente e corpo.

Potere della suggestione


Risale al 1811 la traduzione letterale "piacerò" dell'Hoopers Medical Dictionary che all'epoca definì il placebo come "Medicamento dato più per compiacere il paziente che per fornirgli beneficio". Da allora i passi avanti sono stati molti, tanto che è ragionevole ipotizzare che il placebo rappresenti il medicinale maggiormente studiato e conosciuto per l'enorme mole di lavori, che nel corso dei decenni, l'hanno confrontato con le più svariate molecole, sulla base del metodo sperimentale basato sui controlli. Ma di che cosa si tratta? È il confronto tra l'efficacia di un nuovo farmaco o un nuovo procedimento applicato su un gruppo di pazienti, rispetto a una sostanza neutra e innocua, il placebo appunto, somministrata a un altro gruppo altrettanto numeroso di pazienti. Sia i pazienti sia il medico sperimentatore devono, ovviamente, ignorare fino alla conclusione dell'esperimento, a quale gruppo saranno assegnati i diversi soggetti (metodo "doppio cieco"). La necessità di un gruppo di controllo è proprio legata all'esistenza dell'effetto placebo, in base al quale determinate malattie possono migliorare o guarire con la somministrazione di sostanze innocue e fasulle purché prescritte al paziente quali medicine. Lancet al proposito ha identificato in un lavoro del 1994 una serie di fattori che annullano o rinforzano l'effetto placebo, legittimandone così l'esistenza:
  • le iniezioni sono più efficaci delle compresse a parità di dosaggio e le compresse più grosse sono più efficaci di quelle piccole;
  • la fiducia del paziente nel medico aumenta l'effetto placebo, come pure gli attestati appesi alle pareti dello studio del medico;
  • l'effetto aumenta se si spiega al paziente il supposto meccanismo d'azione del farmaco;
  • l'effetto placebo è migliore nei pazienti ansiosi e in quelli dotati di scarsa capacità critica.
Visto così l'effetto placebo sembrerebbe una semplice "presa in giro" del paziente, dipendente dalla sua suggestionabilità, dal carisma del medico, dal tipo di malattia, dal colore e persino dal costo della medicina. Tutto qui?

La scienza del placebo


I National Institutes of Health (NIH) non si sono accontentati e hanno deciso di affrontare la questione su basi scientifiche. Per questo alla fine del 2000 hanno avviato un progetto di ricerca internazionale sull'analgesia da placebo. Il finanziamento per il progetto previsto dagli statunitensi ha superato i 2,5 milioni di dollari nel 2002 e il lavoro è diviso in 6 sezioni alle quali lavorano 15 istituti degli NIH direttamente coinvolti, ma anche scienziati di tutto il mondo. Un primo filone di ricerca, dedicato alla neurobiologia, e pervenuto ai primi risultati, è volto a spiegare le basi biologiche dell'effetto placebo. Altre tre sezioni sono dedicate allo studio dell'effetto placebo attraverso trial farmacologici, psicoterapeutici e procedurali. Una parte del progetto prevede, poi, l'elaborazione e la verifica di protocolli di condizionamento destinati a diminuire l'utilizzo di farmaci nella pratica clinica. Infine una sezione è dedicata ai metodi impiegati dalle medicine non convenzionali. I primi risultati non sono tardati e sono stati recentemente illustrati da Fabrizio Benedetti, ricercatore presso il Dipartimento di neuroscienze dell'Università di Torino e condirettore della sezione di neurobiologia del progetto NIH. Finora sono state identificate due sostanze endogene implicate nell'analgesia da placebo, gli oppioidi endogeni (Oe) e la colecistochinina (Cck), che permettono di modulare la risposta placebo in due sensi opposti. Gli oppioidi endogeni sono liberati nel cervello, in seguito a una complessa attività mentale che include aspettativa, fiducia e desiderio di guarire. Queste sostanze si vanno a legare a dei recettori nel cervello e inducono una riduzione nella sintomatologia dolorosa. La colecistochinina ha invece un effetto opposto. Frena, infatti, la risposta placebo. Più Cck c'è, perciò, minore è la risposta placebo. Riuscendo così con un farmaco antagonista a bloccare i recettori della Cck, sembra possibile controllare l'effetto placebo.

I dubbi degli scettici

Restano aperti, comunque, i dubbi, sintetizzati da un recente articolo del New England Journal of Medicine. Secondo i due autori danesi - con l'unica eccezione delle terapie antidolore - l'analisi di oltre cento studi pubblicati tra il 1946 e il 1998 non avvalora l'ipotesi che l'effetto placebo esista davvero, quando i parametri che ne dimostrerebbero l'esistenza sono messi a confronto con quelli relativi a gruppi di pazienti che non hanno ricevuto alcun tipo di trattamento. Secondo diversi studi il placebo può migliorare i parametri sia soggettivi sia oggettivi relativi a un'ampia gamma di malattie e in percentuali di pazienti che toccano il 30-40%. Ma la maggioranza di queste analisi - scrivono i due ricercatori danesi - ha valutato l'effetto placebo dalla differenza tra le condizioni iniziali dei malati e quelle registrate al termine della sperimentazione. Senza considerare, così, il miglioramento che si verificherebbe comunque nel corso della malattia. La dimostrazione di tale teoria starebbe nel fatto che negli studi in cui sono comparati tutti i trattamenti, non solo quelli con il placebo ma anche quelli senza alcun tipo di farmaci, i pazienti lasciati senza trattamento farmacologico migliorano con la stessa frequenza di quelli trattati con placebo. Le oltre cento sperimentazioni esaminate includevano una quarantina di condizioni, fra cui ipertensione, asma, disturbi dell'umore, infezioni, malattia di Parkinson e Alzheimer, dolore, nausea, obesità e altre. Un editoriale di commento, peraltro, osserva la bassa potenza statistica dell'analisi per escludere un effetto placebo in tutte le condizioni esaminate. Inoltre la gravità di alcune delle condizioni esaminate può aver mascherato la presenza di un effetto placebo ridotto. Va sottolineata, infine, l'eccezione riguardante la terapia del dolore. L'analisi quantitativa mostra che il placebo può ridurre l'intensità del dolore anche del 35%.
Basterebbe questo risultato a sfatare che l'effetto placebo sia una leggenda metropolitana della medicina, come alcuni ricercatori sostengono. Del resto come recita un detto popolare "quando non si deve morire tutte le medicine fan guarire" anche quelle finte....



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