Beccato!

04 aprile 2003
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Come si arriva alla diagnosi di un'infezione, si tratti di una malattia "normale", di un'epidemia o di un atto bioterroristico? E come si arriva a capire qual è la cura giusta, quella che non fa perdere tempo inutilmente? E' ovvio che i sintomi e l'esame obiettivo guidano il medico quasi a colpo sicuro, ma solo a stabilire che è in atto una cistite, o magari una polmonite o qualsiasi altra cosa. Ma stabilire esattamente che cosa la provoca, qual è il nome cognome dell'aggressore è un'altra cosa. Eppure è fondamentale per attuare una terapia mirata. I mezzi ci sono.

L'esame colturale e l'antibiogramma


Il primo consiste nel prelevare piccole quantità di tessuto, o di fluido (l'escreato, l'essudato di una piaga) o anche di sangue e nel metterlo in un terreno favorevole alla crescita dei batteri, o dei virus. Quando il germe si è moltiplicato a sufficienza , ecco che diventa possibile determinarne la natura anche con mezzi relativamente poveri come un microscopio. Il problema però è il tempo: possono occorrere anche settimane. Secondo punto: restando al caso dei batteri, non basta sapere quale batterio è, ma scoprire anche a quale farmaco è sensibile. La strategia standard è l'antibiogramma. Questo test consiste nel mettere a contatto le colonie di batteri ottenute col test precedente con diversi antibiotici, così da scoprire quali ne arrestano la crescita. In questo modo si ovvia al problema delle resistenze. Ma, ancora una volta, diventa limitante il fattore tempo. Con i virus, poi, non è possibile nemmeno procedere a un equivalente dell'antibiogramma. Infatti, non è possibile testare a questo modo l'efficacia degli antivirali e, nel caso dell'HIV che spesso presenta resistenze, questo è un inconveniente non da poco.
E' ovvio che quanto detto finora vale anche nel caso che si sia di fronte ad acqua contaminata, a cibi potenzialmente contaminati eccetera.

Rendere più veloce l'identificazione


Accelerare le procedure è dunque strategico e fortunatamente, almeno per l'aspetto dell'identificazione dei virus, sono stati fatti sostanziosi passi avanti. Si tratta degli immunoassay, cioè i test immunologici che sfruttano il legame fortissimo che si crea tra anticorpo (il soldatino con cui l'organismo si difende) e antigene (cioè l'aggressore). Il più famoso è l'ELISA, il più affidabile, per esempio, per lo screening dell'HIV.
Il fine è stabilire se nel sangue o comunque nel campione prelevato al paziente è presente l'anticorpo per un certo virus, se c'è l'anticorpo significa che c'è, o meglio c'è stato, il virus. Il sangue viene purificato dalle cellule ematiche (globuli rossi e bianchi) e il siero così ottenuto viene fatto reagire con l'antigene, quindi se ci sono gli anticorpi, per esempio, per l'HIV, si legheranno all'antigene. A questo punto si immette un secondo anticorpo di origine animale che va a dirigersi contro l'anticorpo umano del siero. Solo che questo anticorpo animale è legato a un enzima, che è in grado di reagire con opportune sostanze chimiche colorandole.
Questo tipo di test è decisamente più rapido ma presenta alcune pecche: per esempio la presenza degli anticorpi non dice se si è malati ora o lo si è stati in passato: il sistema immunitario ha una sua memoria. E' insomma un metodo indiretto, tanto è vero che un conto è essere sieropositivo e un altro essere malato di epatite.

Meno male che c'è il DNA

Un ulteriore miglioramento è venuto dalla biologia molecolare, cioè da quelle tecniche che si basano sull'identificazione del DNA o dell'RNA. Ormai tutti sanno che gli acidi nucleici sono la firma infalsificabile di tutti gli organismi viventi , quindi se si sa come è fatto il DNA o l'RNA di un virus o di un batterio basta cercare quello per sapere se è presente nel campione da esaminare. Ma si tratta appunto di strutture molecolari, che per essere identificate devono essere portate a quantità rilevanti. E' quello che fa la tecnica chiamata PCR (Polymerase Chain Reaction, reazione a catena della polimerasi). La DNA polimerasi è un enzima che in natura ha il compito di riprodurre il DNA cellulare, la cui funzione può essere sfruttata in vitro per ottenere milioni e miliardi di copie del DNA batterico, ciascuna delle quali spezzata ad una certa lunghezza, così da poter stabilire, esaminando l'estremità di ciascuno spezzone, qual è la sequenza completa. Ottenuta questa informazione la si confronta con un database che contiene tutte le sequenze conosciute dei batteri. Un po' come i libroni delle foto segnaletiche della polizia. Più rapido dell'antibiogramma? Certamente sì, ma il progresso non si è fermato qui.

Le nanotecnologie

Il DNA può essere replicato con la PCR, ma si può sfruttare anche un'altra proprietà intrinseca: quando la doppia elica della sua molecola viene aperta, tende a richiudersi non appena trova una catena complementare. Questo fenomeno è detto ibridazione e viene sfruttato con l'ausilio delle cosiddette sonde genetiche, frammenti di DNA appositamente preparati per andare a chiudersi su un preciso frammento.
E' un po' come avere un'esca alla quale può abboccare solo quel particolare pesce. Quindi disponendo di un campione in cui si presume la presenza del DNA o dell'RNA di un certo batterio o virus e mettendolo a contatto con le sonde, la cattura è certa e una volta che è avvenuta l'ibridazione si ha la produzione di un colore come nel caso dell'ELISA. E' però dall'incontro con l'elettronica e la miniaturizzazione più spinta (nanotecnologia) che questa metodica ha avuto un impulso risolutivo. Si tratta della nascita dei nanochip, veri e propri circuiti integrati elettronici sulla cui superficie sono distribuiti fino a 100 microscopici punti di test. Grazie alla proprietà elettriche delle molecole organiche, le sonde genetiche possono essere distribuite su questi "nanolaboratori" per mezzo di piccole correnti generate e controllate da un computer, dopodiché nel nanochip può essere immesso il campione da analizzare. Se nel campione è presente il materiale genetico di un virus o di un batterio si dirigerà inevitabilmente verso il punto di test in cui è presente la sonda genetica giusta (è un'attrazione fatale).
I vantaggi di questa metodica sono moltissimi. Per esempio, si possono non soltanto individuare quali germi sono presenti, ma anche se sono di tipo resistente a questo o quell'antibiotico. Allo stesso modo si può determinare se un virus è o meno sensibile agli antivirali.
Il pioniere di questa metodica, la statunitense Nanogen, ha già condotto esperienze sugli Stafilococchi meticillino-resistenti, un ceppo di batteri che più causa preoccupazioni in fatto di infezioni ospedaliere. Inoltre, potendo controllare contemporaneamente un così elevato numero di ipotesi, il lavoro di individuare il "nemico" diventa questione di ore. Tempo prezioso, se è in gioco la vita.

Maurizio Imperiali



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