Emozioni in vendita

06 aprile 2005
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Emozioni in vendita



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"Il buon pubblicitario deve essere anche uno psicologo e conoscere le emozioni e i sentimenti umani". Così si è espresso nel lontano 1911 Walter D. Scott, uno dei principali teorici della psicologia del marketing. E di questo si è occupato un articolo pubblicato su Tabacco control, una delle riviste affiliate al BMJ. Una ricerca ha cercato, infatti, di esplorare quali bisogni di soddisfazione psicosociale le pubblicità di sigarette rivolte alle donne vadano a compensare. Ne sono scaturite informazioni interessanti in chiave anti-fumo. Del resto una recente presa di posizione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità ha auspicato il divieto di ogni pubblicità sul tabacco. Segno che il problema è universalmente sentito.

Una pubblicità per ogni target


Le aziende produttrici di sigarette hanno, evidentemente, dei target mirati nelle loro pubblicità. Le donne sono uno di questi. E a giudicare dall'andamento delle vendite con buoni risultati. Ma perché le fumatrici cadono nella rete? E' un fattore di immagine di sé da acquisire - dicono i ricercatori. Le fumatrici cioè avrebbero bisogni emotivi e psicologici e proprio su quelli la pubblicità va a battere. Se il target sono le donne adolescenti il fumo viene associato a una immagine di forza. Più le donne crescono più le immagini cui si ricorre sono quelle di sex-appeal, indipendenza e avventura. Quando poi si tratta di sigarette esclusivamente al femminile, le idee da rafforzare sono quelle di emancipazione, libertà e uguaglianza. L'obiettivo pubblicitario delle aziende, perciò, è stato, nel ventennio dal 1980 al 2000, quello di equiparare il fumo alla soddisfazione dei bisogni psicosociali. La modalità è più sottile di quanto si possa pensare e il più delle volte non mette direttamente in evidenza le sigarette. Piuttosto si presentano immagini che evocano la soddisfazione di determinati bisogni e poi, per associazione, si introduce la marca di sigarette in questione come il sistema per soddisfare i bisogni stessi. Per cui i pubblicitari non devono mettere in evidenza gli attributi fisici della sigaretta in sé e si può tranquillamente omettere l'atto del fumare. Una strategia ingannevole che non riguarda solo le donne e che è parametrata sulle diverse fasce d'età. Se l'idea del fumare per le donne più giovani si accompagna a cameratismo, libertà e indipendenza, per le più mature si accompagna a piacere, rilassamento, accettazione sociale e fuga dalla quotidianità. Un analisi di questo tipo - concludono i ricercatori - è utile a due livelli di controllo: il divieto assoluto di pubblicità e le campagne di contro informazione.

Che il divieto sia assoluto


Le campagne proibizioniste - dicono i ricercatori - devono essere assolute e non parziali. Solo queste, infatti, hanno dimostrato di funzionare. Per esempio in Australia dove è impossibile pubblicizzare sigarette, il tasso di fumatori è precipitato dal 22% del 1998 al 19,5% tre anni dopo e la percentuale di quelli che non hanno mai fumato è aumentata nello stesso periodo. L'industria del tabacco è tutt'altro che ingenua e mira ad aggirare o indebolire le proibizioni che non siano assolute. E' chiaro che se la proibizione riguarda, come accade negli Stati Uniti, l'immagine della sigaretta ma si può alludere in modo più sottile o nelle cosiddette forme subliminali, le campagne avverse perdono di forza. D'altro canto le campagne di contro-informazione che denormalizzano il fumo e le aziende, possono funzionare. La condizione è che siano ben fondate, di lungo corso e accompagnate da altre misure per la disassuefazione. Due dovrebbero essere gli obiettivi: demolire il concetto che fumare comporti la soddisfazione di un bisogno e magari suggerire altre strategie per compensarlo. Come a dire rispondere pan per focaccia...

Marco Malagutti



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