Su la pressione, giù la memoria

10 agosto 2020
Aggiornamenti e focus

Su la pressione, giù la memoria



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Sono molti gli studi che hanno dimostrato l'esistenza di una stretta correlazione tra i valori di pressione arteriosa e lo stato delle funzioni cognitive nell'anziano, individuando nell'ipertensione arteriosa, in particolare, un importante fattore di rischio di demenza. E la demenza è un problema che in Italia colpisce un numero sempre maggiore di persone, a causa soprattutto del proporzionale aumento della speranza di vita media. Basti pensare, infatti, che negli ultimi 50 anni il numero degli ottantenni in Italia è aumentato di quasi 5 volte, passando dai circa 500.000 soggetti del 1950 ai circa 2.400.000 del 2000.
Da uno studio longitudinale italiano sull'invecchiamento (denominato ILSA) è poi emerso che il 19% circa della popolazione anziana tra gli 80 e gli 84 anni d'età presenta funzioni cognitive deteriorate e ben il 18% è affetta da demenza (con una netta prevalenza per il sesso femminile). Ciò non può che giustificare l'enorme interesse che il mondo medico-scientifico ha dato, e continua a dare, ai problemi legati all'attività cerebrale dell'anziano.

Lo studio SCOPE e gli altri


Una volta emersa la possibile correlazione tra ipertensione e maggior rischio di demenza senile, un gruppo di ricercatori ha dato il via allo studio SCOPE (Study on COgnition and Prognosis in the Elderly), al fine di valutare l'effetto di un farmaco antipertensivo (il candesartan) non solo sulla riduzione del rischio di eventi cardiovascolari, ma anche sul rallentamento del declino cognitivo negli anziani. Si tratta del più ampio studio mai condotto con un farmaco ET1 antagonista, che ha coinvolto circa 5 mila soggetti ( di 15 Paesi diversi) tra i 70 e gli 89 anni d'età affetti da ipertensione lieve-moderata (diastolica: 90-99; sistolica: 160-179 mmHg).
Dopo 3 mesi di osservazione, i pazienti sono stati suddivisi in due gruppi: uno è stato trattato con candesartan in dosi di 8 mg al giorno; il secondo con placebo. Dopo un primo periodo di trattamento, se i pazienti non riuscivano a ottenere valori pressori soddisfacenti, le dosi di farmaco (o di placebo) potevano essere raddoppiate. L'attività cognitiva dei pazienti è stata periodicamente monitorata attraverso il test Mini Mental State Examination (MMSE), un esame con cui si sottopone il paziente a una serie di quesiti, al fine di valutare la sua capacità mnemonica e cognitiva generale. I pazienti sono stati seguiti per un tempo medio di 24-36 mesi. I risultati definitivi dello studio saranno ufficialmente resi noti fra breve. Comunque non è solo questo farmaco a promettere effetti sul declino cognitivo. Altre esperienze sono state condotte con una diversa famiglia di antipertensivi: i calcioantagonisti. Uno studio europeo pubblicato dagli Annals of Internal Medicine, che ha seguito poco meno di 3.000 pazienti, ha dimostrato una riduzione del numero di casi di demenza pari al 50%, molti dei quali sarebbero stati casi di Alzheimer. In effetti, come ha dichiarato uno degli autori, Jan Staessen: "va sottolineato che sempre più spesso le ricerche indicano che i tradizionali fattori di rischio cardiovascolare - ipertensione, ipercolesterolemiae diabete - non sono soltanto predittivi della demenza vascolare, ma anche dell'Alzheimer".

Meccanismi diversi


Farmaci come il candesartan agiscono sul cosiddetto "asse ormonale renina - angiotensina - aldosterone", dove la renina (ormone prodotto dal rene quando riceve poco sangue) agisce attivando l'ormone angiotensinogeno (detto "il precursore dell'angiotensina"), l'ormone rilasciato dal fegato e privo di attività propria. Una volta prodotta, l'angiotensina I viene poi convertita per mezzo dell'enzima Ace (Angiotensin conversion enzyme) in angiotensina II, l'ormone capace di agire (tramite i recettori AT1 e AT2) sui meccanismi di regolazione della pressione e responsabile della produzione di aldosterone, ormone a elevato potere ipertensivo.
Ma l'angiotensina II ha un ruolo anche a livello cerebrale (ancora oggi oggetto di ricerca scientifica). Studi passati hanno evidenziato la presenza di recettori per l'angiotensina II in alcune cellule nervose e, in particolare, in specifici gruppi di neuroni coinvolti nella regolazione della pressione arteriosa, nonché nei neuroni che si ritengono essere responsabili dei meccanismi di memoria. In particolare, i recettori AT1 (specifici per l'angiotensina II) sembrano essere in grado di inibire il processo LTP (Long Term Potentiation), meccanismo che, tramite particolari connessioni neuronali, garantirebbe il ricordo e la capacità di "registrare" informazioni; l'AT1, pertanto, ostacolerebbe la formazione di nuovi ricordi. Ecco perché i ricercatori sono convinti che i farmaci in grado di bloccare i recettori AT1 (come il candesartan) possano favorire il miglioramento delle funzioni cognitive.
Nel caso dei calcioantagonisti, invece, l'azione protettiva dei neuroni dipenderebbe proprio dal fatto che nella degenerazione delle cellule cerebrali entra anche il venir meno della regolazione del transito del calcio nelle cellulecerebrali. Inoltre, questi farmaci si sono dimostrati in grado di ridurre il turn-over di alcuni neurotrasmettitori che sono quelli carenti nei casi di demenza degenerativa. Infine, ed è una conferma indiretta, i calcioantagonisti si legano soprattutto a quelle reee del cervello interessate dalle degenerazioni tipiche dell'Alzheimer, e non in altre.
Quale messaggio si può trarre allora da questi studi? Che se nell'anziano si attuano le forme di prevenzione già note per le principali malattie cardiovascolari (ictus, infarto) è molto probabile un benefico effetto anche sulla salute neurologica. Non è poco.

Fonte:
  • Scope Media Information; "Il cervello sotto pressione" - Milano, 27 maggio 2002. Forette F, Seux ML, Staessen JA et al. The prevention of dementia with antihypertensive treatment: new evidence from the systolic hypertension in Europe (syst-eur) study



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