Dialogo sempre più arduo

06 luglio 2007
Aggiornamenti e focus

Dialogo sempre più arduo



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Il rapporto tra medico e paziente è cambiato, lo dicono tutti, anche in Italia. Merito della maggiore informazione, è quasi un luogo comune, e probabilmente dell'acculturamento generale. Tuttavia la "contrattazione" della terapia, la condivisione delle scelte e, naturalmente le decisioni della fine vita, non sono aspetti che si risolvono automaticamente con una maggiore informazione. Anche perché non è detto che tutti vogliano essere coinvolti così attivamente. Uno studio di qualche anno fa, ma ancora attuale secondo gli esperti, aveva valutato l'orientamento in fatto di partecipazione alle decisioni in un campione di poco meno di 2200 pazienti.

Molto dipende dalla malattia


Abbastanza sorprendentemente, il 69% delle persone preferiva lasciare al medico le decisioni. Questo atteggiamento era più comune col crescere dell'età e più raro con l'aumentare del grado di istruzione. Inoltre, erano più facilmente le donne ad assumere un ruolo attivo. Certamente contano anche la natura e la gravità della malattia. Nello studio in questione, i pazienti soffrivano di ipertensione, diabete, depressione, insufficienza cardiaca o erano reduci da un infarto; ebbene, tra coloro che presentavano diabete grave o malattie cardiaca la propensione a un ruolo attivo era poco meno che dimezzata rispetto agli ipertesi non gravi, mentre erano i depressi i più propensi a prendere in mano la situazione.
Certamente dal 2000 a oggi le cose sono cambiate, tanto che un'indagine sulla comunicazione tra medico e paziente presentata recentemente dal CENSIS dà un profilo molto diverso.
Per esempio, si legge nella relazione, "solo il 2,5% dei rispondenti ritiene infatti che il paziente non debba essere informato nel caso di una patologia grave. Anche nei casi più drammatici dunque la convinzione espressa in larga maggioranza dai rispondenti prevede che il paziente debba essere informato delle proprie condizioni di salute e debba in qualche modo partecipare al processo di determinazione delle terapie e delle cure. Nello specifico per l'82,3% del campione la comunicazione della malattia grave deve essere di competenza del medico, mentre solo per il 7,1% deve appartenere ai famigliari". Certamente però, va tenuto presente che il campione del CENSIS (1000 persone) è rappresentativo della popolazione generale, mentre quello del 2000 era costituito da persone con una malattia. E questo non può non cambiare le cose.

Medico di famiglia? Bravo...


Sempre secondo il CENSIS, il giudizio della popolazione verso la capacità relazionale del medico di famiglia o di fiducia è buono, con percentuali molto elevate, anche sull'aspetto psicologico e relazionale (82%). E' il medico, semmai, ad avere qualche difficoltà, visto che può sentirsi ridotto a consulente di una persona che, sulla base di suoi convincimenti, chiede soltanto una verifica, per così dire. Non è una cosa nuova: già una ventina di anni fa Aldo Pagni, allora presidente della Società italiana di medicina generale, temeva che si potesse giungere a un medico di famiglia che "dirigeva il traffico dei pazienti tra specialisti e laboratori". Tra l'altro le difficoltà per il medico, sotto questo aspetto, sono destinate ad aumentare, anche per gli specialisti. Come ricorda un altro studio recentissimo, con l'aumentare delle malattie neurodegenerative, con il miglioramento dei sistemi di supporto vitale, accade sempre più spesso che in ospedale, ma anche al domicilio, il curante abbia a che fare con malati che non sono in grado di esprimere i loro desideri e volontà. Di qui il crearsi di una dinamica ancora più complessa, in cui sono i famigliari o comunque chi assiste il malato a doversi interfacciare con il medico. Ed è una dinamica più complessa per svariati motivi: il famigliare ha presente il suo congiunto com'era: una persona piena di vita, magari; il medico, invece, magari non ha mai visto prima la persona e vede soltanto un sofferente incapace di agire. Non è detto poi che il famigliare sia in grado di interpretare i desideri e la visione della vita espressi in precedenza dal malato, e questo può essere fonte di stress per lui e di confusione per il medico. Può anche accadere che il famigliare coinvolto sia più d'uno, e che non vi sia accordo su quale decisione prendere. Un compito tutt'altro che facile, insomma, che renderebbe ancora più urgente decidere del cosiddetto testamento biologico. Ma questo, si sa, è un altro argomento.

Maurizio Imperiali



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