Ai depressi non giovano mezze misure

08 settembre 2004
Aggiornamenti e focus, Speciale Depressione

Ai depressi non giovano mezze misure



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Quando si è veramente guariti dalla depressione non è facile dirsi. Secondo una recente intervista a uno dei principali ricercatori canadesi, Pierre Blier dell'Institute of Mental Health Research dell'Università di Ottawa, si tende ad accontentarsi troppo facilmente. Secondo Blier, infatti, il nodo sarebbero i sintomi residui. In altre parole, spesso la terapia viene interrotta quando il paziente raggiunge un certo punteggio nella scala adottata per verificare il suo stato. Per esempio, in ambito anglosassone, se il paziente ha un punteggio inferiore a sette nella Hamilton Depression Rating Scale, indipendentemente da quello che si ottiene dal colloquio, si ritiene di aver raggiunto l'obiettivo. I sintomi residui ovviamente possono molto variare, essere soggettivi (per esempio, il paziente dice di non stare bene, malgrado il recupero della sua capacità di agire normalmente) oppure oggettivi (il paziente tradisce atteggiamenti ansiosi o di altro genere pur dicendosi "a posto"). Si sa che in psichiatria non esistono parametri di guarigione "di laboratorio". E' vero che sono state avanzate delle ipotesi, sulla base degli studi animali: è stato notato che alcune zone cerebrali tendono all'atrofia e non sono in grado di riprodurre neuroni (un'acquisizione anch'essa piuttosto recente) a seguito di condizioni molto stressanti e che, al contrario, somministrando antidepressivi questa atrofia può essere invertita. Non si sa, però, se questo accada nell'uomo, né se eventuali miglioramenti dei parametri biologici siano la causa della guarigione o una sua conseguenza. Insomma, decidere in laboratorio di questa questione resta un obiettivo non raggiunto (e chissà se raggiungibile).

Ricadute troppo rapide


Quanto ai sintomi residui questi sono invece un ostacolo provato alla guarigione completa. Indagini pubblicate già da tempo, ma poco accettate spiega Blier, hanno dimostrato che quando si interrompe il trattamento prima che tutti i sintomi siano spariti, le possibilità di una ricaduta sono pari al 92% e la ricaduta si ripresenta nella maggior parte dei casi entro i due anni. Se invece si arriva a cancellare qualsiasi segno, la ricaduta si presenta comunque abbastanza spesso (66%) ma il più delle volte passano 7 anni e più.
Per ottenere una remissione completa del disturbo, che è la condizione per sospendere i farmaci, due sono le chiavi: trattare subito e trattare aggressivamente. Secondo il ricercatore dovrebbe essere la regola partire con due antidepressivi che agiscano sui sistemi della serotonina e della noradrenalina, meglio se differenti per quanto riguarda il meccanismo d'azione. L'alternativa è il ricorso a un farmaco dell'ultima generazione, i cosiddetti SSNRI, che agiscono sulla serotonina al dosaggio di partenza e su serotonina e noradrenalina aumentando il dosaggio.
Comunque la tempestività è tutto, tanto che dovrebbe essere già il medico di famiglia, prima del ricorso allo specialista, ad avviare la cura. Se quest'ultima è adeguata, poi, lo si dovrebbe vedere già a 2-4 settimane. Insomma, non è il caso di temporeggiare. E' provato che i sintomi oggettivi sono i primi che risentono positivamente della cura, mentre quelli soggettivi hanno una remissione più lenta, e questo va tenuto presente, così come va tenuto presente che il miglioramento va riscontrato sia dal medico sia dal paziente, ma anche da chi con il paziente vive e lavora. Un solo vuoto nella trattazione di Blier: la psicoterapia. Eppure gli studi dimostrano che i risultati migliori, indipendentemente dal tipo di farmaco adottato, migliorano notevolmente se la terapia viaggia su entrambi i binari: il farmaco e la parola.

Maurizio Imperiali



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