Abbronzatura? Scottatura!

29 luglio 2005
Aggiornamenti e focus

Abbronzatura? Scottatura!



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Abbronzatura fa rima con scottatura. Se poi ci si basa sulle stime meno ottimistiche tra quelle relative agli effetti della deplezione dello strato di ozono, l'associazione è destinata a essere sempre più forte.
Di conseguenza cresce la necessità di proteggersi adeguatamente.

L'ustione solare è un'altra cosa


Il termine è lo stesso, ma le ustioni causate dalle radiazioni solari sono una cosa diversa da quelle che ci si procura con l'acqua bollente o il ferro da stiro, che sono dovute alla radiazione infrarossa. Le ustioni solari sono causate dalla radiazione ultravioletta che, però, non scalda in senso proprio. Quel che fanno gli UV è danneggiare le strutture molecolari delle cellule, in particolare quelle del DNA, cosa che a sua volta provoca la produzione di diverse proteine, a cominciare dalle prostaglandine. Queste sono i principali mediatori delle infiammazioni, e alla loro azione si devono i sintomi quali gonfiore (dovuto alla dilatazione dei vasi sanguigni) arrossamento e dolore. A seconda della gravità del danno inflitto al DNA, la cellula può anche andare incontro alla morte, il che spiega come mai la scottatura determini quasi sempre l'esfoliazione della pelle. Ovviamente esistono meccanismi di riparazione cellulare, ma quando questi sono insufficienti è un bene che la cellula muoia. Se sopravvive, infatti, può degenerare in cellula precancerosa o cancerosa. Infine, rispetto al danno termico diretto, quello degli infrarossi, la reazione all'eccessiva esposizione agli UV si ha qualche ora dopo rispetto al danno, e questo ritardato campanello d'allarme è uno svantaggio.

Spiaggia? Lettino?


Naturalmente la radiazione solare contiene anche infrarossi, quindi è ovvio che al sole ci si scalda, ma non è quello il principale meccanismo dell'ustione, tanto che è esperienza comune il fatto che ci si scotti anche con le lampade abbronzanti, che emettono soltanto UVA. Anzi proprio in questa caratteristica risiede la loro maggiore pericolosità: non si prova mai fastidio immediato (cosa che accade in montagna o sulla spiaggia) e quindi si perde "il senso del limite" . Inizialmente si impiegavano soprattutto sorgenti in grado di emettere raggi UVB, UVA, piccole quantità di UVC e lo spettro visibile. Di fatto l'abbronzatura era determinata principalmente dalla componente UVB, molto più efficiente nel produrre scottature ed eritemi ma anche l'abbronzatura. Oggi invece si usano prevalentemente sorgenti di soli UVA, ragion per cui per ottenere l'effetto cosmetico in tempi ragionevoli (una decina di sedute di 15-20 minuti) la radiazione deve essere particolarmente intensa e nei lettini può anche essere da 10 a 100 volte superiore a quella solare misurata alle nostre latitudini alle ore dodici nel mese di giugno o di luglio. E contrariamente a quanto affermato da qualcuno poco informato o interessato a confondere le idee, la radiazione UVA non è affatto innocua. Per questo una commissione istituita dal Ministero della Sanità già nel 1987 aveva proposto di vietare il trattamento estetico ai minori di 15 anni e di richiedere una visita preventiva per tutti gli altri.

Protezione sì, ma quale?

La prima e più ovvia, da sempre, è non esporsi eccessivamente il che significa non soltanto evitare l'esposizione molto prolungata in stile lucertola ma, per esempio, affrontare un trekking di diverse ore indossando un cappello che protegga il viso oppure evitando lunghe trasferte in bicicletta a torso nudo. Il fatto che si sia distratti costituisce un ulteriore elemento di sottovalutazione dello stress cui è sottoposta la pelle. Negli ultimi 40 anni si sono andati imponendo i cosiddetti filtri solari, che sono sostanze in grado di filtrare le radiazioni ultraviolette in due modi: assorbendole, in pratica si degradano loro al posto delle strutture cellulari, oppure rifrangendole, cioè deviandole dalla pelle così che non possano raggiungerla. Per entrambi i tipi di sostanze l'efficacia si misura col cosiddetto "fattore di protezione". E' un numero che indica di quante volte aumenta il tempo per il quale ci si può esporre senza conseguenze. Per esempio, se la massima "resistenza al sole" di una persona è 20 minuti, impiegando un filtro fattore 6, si passa a due ore (20 x 6).

Come impiegare i filtri

Ma quanto è affidabile questo calcolo è difficile dire. Intanto, è un dato soggettivo, perché tutto dipende dalla resistenza individuale di partenza; poi spesso sono stati contestati i sistemi con cui si valuta questo fattore di protezione in laboratorio: in alcuni è stato riscontrato che le prove di esposizione, che si conducono mediante delle lampade, sono condotte con una radiazione di intensità minore rispetto a quella cui si è esposti in natura. Infine, in molti studi, soprattutto qualche anno fa, si faceva presente che l'azione di diversi fattori (sudore, vento, acqua, abrasione della sabbia) potevano ridurre in misura anche notevole la durata della protezione, ragion per cui si invitava a ripetere abbastanza di frequente l'applicazione del filtro. Più recentemente, forse anche per il miglioramento dei prodotti, questa indicazione viene moderata: la ripetizione dell'applicazione viene consigliata soprattutto se ci si bagna di frequente o altro.
Uno degli studi più recenti dedicati al tema si chiude con la raccomandazione di applicare la prima volta il filtro 20-30 minuti prima dell'esposizione, ripetendo l'applicazione dopo una ventina di minuti, e non dopo 2 o 3 ore come riportato di solito. In questo modo si riduce del 20-40% la dose di ultravioletti assorbita. Solo dopo manovre come una vigorosa asciugatura è il caso di ripetere di nuovo l'operazione. A patto di avere usato un prodotto "waterproof" o "water resistant", quelli che comunque garantiscono la minore "volatilità".

Maurizio Lucchinelli



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