I veri colpi bassi sono alla testa

31 luglio 2003
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I veri colpi bassi sono alla testa



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Chi ama gli sport meno tranquilli, posto che di tranquilli ne esistano, dovrebbe dare ascolto a quanto è stato illustrato al 29° congresso dell'American Orthopaedic Society for Sports Medicine, in pratica ortopedici specializzati in traumatologia dello sport. Due relazioni hanno affrontato un tema centrale nella pratica traumatologica, cioè il reale significato della perdita di conoscenza al fine di valutare la gravità dei danni subiti in seguito a uno scontro o una caduta o quant'altro ancora può accadere su un campo di gioco o durante un percorso di mountain bike. Secondo le linee guida attuali, si attribuisce alla perdita di conoscenza una grande importanza ai fini delle decisioni immediate - per esempio, se un giocatore può riprendere la partita oppure richiede il ricovero. Tuttavia molti hanno messo in questione la conclusione, implicita, che se l'infortunato è rimasto sempre cosciente dopo l'incidente la situazione sia di per sé migliore.

Quali aspetti prendere in considerazione


A ridimensionare il ruolo dello svenimento è stato uno studio condotto su 181 atleti di college e universitari che erano andati incontro a trauma cranico. Di questi, solo una trentina aveva perso conoscenza dopo il trauma, gli altri no. Sottoponendo questo campione a una batteria di test neuropsicologici si è però visto che non vi erano differenze negli esiti indipendentemente dalla perdita di conoscenza. In fatto di memoria, tempi di reazione e rapidità nell'elaborazione dei processi mentali tutti gli atleti avevano gli stessi risultati a 24 e 48 ore dall'incidente. Questo, in pratica, significa, probabilmente, che molti, che pure avevano subito traumi seri, avevano potuto continuare immediatamente l'attività, magari rischiando qualcosa di più serio. Secondo uno dei relatori, Mark Lovell dell'Università di Pittsburgh, gli atleti allenati sono in grado di incassare traumi cranici anche rispettabili senza svenire, ma questo non significa che non ci sia stato un danno, sia pure riassorbibile. In effetti, sono segni altrettanto se non più importanti l'amnesia transitoria e lo stato di confusione.

Cambiare le linee guida


E' il caso, dunque, di cambiare le attuali linee guida, prescrivendo che nessun atleta che abbia subito un trauma cranico ricominci l'attività prima che sia stata condotta una valutazione neuropsicologica. Non si pensi però alla TAC cerebrale o ad altre metodiche diagnostiche sofisticate. In effetti, basta una batteria di test che permettano di valutare alcune capacità intellettive di base: memoria, appunto, tempi di reazione e capacità cognitive. Infatti, dopo un trauma il cervello, per così dire, subisce un rallentamento dei suoi processi, tanto più grande quanto più grande è stato l'impatto. Non a caso il test più largamente impiegato a questo scopo negli Stati Uniti si chiama ImPACT (che sta per Immediate Post-concussion Assessment and Cognitive Test), siccome si tratta di un test basato su computer, è anche facilmente somministrabile- come si dice in gergo - anche in una postazione mobile quali quelle presenti in molti avvenimenti sportivi. L'uso dell'ImPACT, peraltro, ha già permesso di stabilire che gli atleti soggetti a concussione hanno prestazioni decisamente inferiori a quelle delle persone che non hanno subito traumi e che, in media, queste conseguenze non scompaiono prima di otto giorni. La lezione da trarre, anche per chi non è un professionista, è che anche sul campo di calcetto nessun trauma alla testa va sottovalutato, soprattutto se si presentano amnesia e confusione, anche se non c'è svenimento. E questo vale soprattutto per chi ha da 18 anni in giù, fascia d'età nella quale è ancora in corso lo sviluppo cerebrale. Anche gli atleti veri e propri, poi, sarebbe il caso che stessero lontani dall'attività agonistica almeno 10 giorni quando il trauma ha indotto conseguenze visibili alla valutazione neuropsicologica.

Maurizio Lucchinelli



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