Ippocrate non vuole guerre

21 marzo 2003
Aggiornamenti e focus

Ippocrate non vuole guerre



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"Persino l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha inserito la guerra tra i fattori di rischio per la salute, e ogni anno pubblica le statistiche sul numero di morti causati dai conflitti in tutto il mondo. Noi stiamo semplicemente ampliando il dibattito nella comunità medica sulle ricadute della guerra in termini di salute pubblica". Richard Horton, direttore di Lancet, ha parlato chiaro, ribadendo la centralità degli operatori sanitari, medici ma anche comunicatori, rispetto all'argomento guerra. Non tutti però sono d'accordo. I termini del contendere sono di due tipi: le riviste mediche devono occuparsi di guerra? Ed è giusto darsi un codice di autocensura per evitare che importanti informazioni scientifiche vadano a finire nelle mani sbagliate?

Parlare o no di guerra?


La maggior parte delle riviste mediche ha già risposto affermativamente al primo quesito con la pubblicazione di articoli e speciali dedicati all'argomento. Lancet in primis, dopo aver realizzato sul finire dello scorso anno, uno speciale dedicato all'argomento (Medicine and conflict), ha dedicato il 22 febbraio scorso uno special report alla guerra in Iraq, soffermandosi in particolare sulle potenziali conseguenze. Ma anche British Medical Journal, New England e Jama non hanno trascurato la questione. Del resto lo statuto della WAME, l'associazione mondiale delle riviste mediche, è in questo senso inequivocabile, quando dichiara che le riviste devono informare i propri lettori "intorno agli aspetti non clinici della medicina e della salute pubblica, anche se hanno implicazioni politiche". Non tutti, naturalmente, sono d'accordo come Mark Graczynski, direttore della rivista on line Medical Science Monitor, secondo il quale la questione irachena non deve trovare spazio sulle pagine delle riviste mediche proprio per il rischio di "scivolare in politica". In risposta Barry Pless, direttore di Injury Prevention, fa notare come "se certe decisioni politiche producono morti, non credo debbano esserci obiezioni. Del resto - continua Pless - non è molto differente da quando ci occupiamo della relazione tra malattia e povertà e ineguaglianza sociale: anche questi sono aspetti influenzati dalla politica, eppure nessuno ha mai messo in discussione la legittimità della loro presenza sulla pagina delle riviste mediche". Tutt'altro che conclusa questa controversia, resta aperta l'altra questione: è giusto censurare dati sensibili?

La questione censura


Il primo episodio discusso risale allo scorso 8 agosto su Science quando un team di biologi dell'Università di New York ha annunciato la sintesi di un poliovirus umano. Un risultato che ha messo in evidenza come sia possibile sintetizzare un agente infettivo in vitro seguendo le istruzioni di una sequenza scritta. Grandioso ma non per il governo americano. A Washington, infatti, si sono chiesti: e se così si fosse offerta ai terroristi la possibilità di creare a bassissimo costo patogeni umani utilizzabili contro il popolo degli Stati Uniti?. "Paranoie" da 11 settembre che hanno condotto i direttori di venti importanti riviste scientifiche, su esplicita richiesta del governo americano, a elevare una qualche barriera che impedisca a terroristi e paesi nemici l'accesso a informazioni pericolose. Tra le adesioni quella dell'inglese Nature e dell'americana Science. Fuori dal coro, invece, Lancet. Secondo la rivista, infatti, negando la possibilità di ripetere gli esperimenti si nega uno dei fondamenti dell'attività scientifica, sempre poi che le pratiche di autocensura abbiano una qualche efficacia. Come ha sottolineato Marcello Buiatti, genetista dell'università di Firenze in un'intervista all'Unità "distinguere i dati che possono essere utilizzati per le armi e quelli innocui è un'impresa al limite dell'impossibile....il 70% di quello che studio - rincara Buiatti - può essere utilizzato per scopi terroristici". Il rischio così è di dover bloccare troppe ricerche distorcendo tutta la base della dialettica della ricerca scientifica. Del resto che scienza è senza comunicazione della scienza?

Medici in trincea

E i medici? Non si sono certo tirati indietro a giudicare da una "Lettera aperta al Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi" sottoscritta da 1250 operatori sanitari, tra infermieri, medici, ostetrici, dentisti e fisioterapisti. Nella lettera i medici manifestano la loro opposizione alla guerra in Iraq, denunciando come le guerre colpiscano sempre di più i civili, e in particolare i più indifesi, producendo ferite fisiche e psichiche destinate a lasciare segni per molti anni a venire. La risposta del governo non si è fatta attendere per voce di Antonio Tomassini, primario ginecologo, presidente della Commissione Igiene e Sanità del Senato. L'onorevole Tomassini, sostiene che il mondo scientifico deve rimanere estraneo ai problemi della pace e della guerra, perché il compito di affrontarli è stato demandato dai cittadini italiani al governo democraticamente eletto. Vorrà pur dire qualcosa, però, se cinquecento studiosi della London School of Hygiene & Tropical Medicine hanno scritto una lettera aperta a Tony Blair sostenendo che "una guerra può avere conseguenze disastrose a breve, medio e lungo termine sulla salute pubblica, non solo in Iraq ma a livello internazionale....L'intervento militare in Iraq...rischia di aumentare la violenza collettiva...Per questa ragione noi ci opponiamo", scrivono i ricercatori. Analoga posizione per i canadesi del Physicians for Global Survival, gli australiani della Medical Association for Prevention of War e, infine, i medici, americani per lo più, dell'International Physicians for Prevention of Nuclear War. Tutte posizioni "benedette" dalle maggiori riviste mediche come il British Medical Journal o The Lancet.
Infine l'OMS, ha pubblicato un rapporto su "Violenza e Salute" in cui invita tutti gli operatori sanitari del pianeta ad assumere un ruolo attivo nel contrastare le guerre e nel promuovere la cultura della pace. Un'avversione alla guerra che acquisisce nelle parole dell'Oms un carattere deontologico. Non sarebbe quindi ingiusto ritenere questa presa di posizione un'estensione del giuramento di Ippocrate. Non è un caso che un medico, Sigmund Freud, avesse considerato in un suo scritto, "Disagio della civiltà", che si prospettava agli uomini il pericolo dell'autodistruzione e da questa consapevolezza derivava in gran parte l'inquietudine, l'infelicità e l'angoscia. E che di questo avesse a lungo parlato con un altro scienziato, AlbertEinstein.

Marco Malagutti



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