Aver fede nella cura

14 febbraio 2007
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Aver fede nella cura



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Con i progressi della medicina i confini delle possibilità d'intervento si ampliano sempre di più, ma inevitabilmente aumentano anche le situazioni di potenziale conflitto di coscienza per i risvolti etici e morali, spesso per implicazioni spirituali. La questione relativa alle credenze religiose coinvolge i pazienti ma anche chi li cura, e sembra esserci una crescente domanda di attenzione per questi aspetti, che potrebbe non ricevere risposte adeguate. Due indagini statunitensi, una condotta tra medici e una relativa a malati di cancro, hanno voluto sondare quanto il problema sia sentito e come venga affrontato.

Il punto di vista del medico...


A un campione di duemila medici di entrambi i sessi ed età fino a 65 anni, soprattutto di specialità relative a malati gravi o terminali, è stato chiesto se ritenessero etico spiegare le proprie obiezioni morali o religiose a un intervento clinico a un paziente che vuole riceverlo, se considerassero d'obbligo illustrare tutte le opzioni compresa quella richiesta, se dovessero indirizzare il paziente a un collega non contrario a quella scelta. Si sono valutati il grado di religiosità intrinseca (quanto tutta la propria vita è improntata a tali principi) e la vera e propria appartenenza a una religione (tutte le principali) o a nessuna; esemplificando, si è poi domandato se ci fossero obiezioni alla sedazione terminale per far perdere coscienza al soggetto, all'aborto in caso di fallimento anticoncezionale, alla contraccezione ad adolescenti senza consenso dei genitori.
Il 63% ha risposto al questionario e di questi sempre il 63%, in crescendo con l'età, ha ritenuto etico poter esprimere contrarietà morali ai pazienti; per la maggior parte, l'86%, era obbligatorio illustrare tutte le opzioni e per il 71% avviare il malato a un collega consenziente. I medici di sesso maschile e quelli credenti (soprattutto cattolici e protestanti) erano più d'accordo con la possibilità di esprimere le proprie obiezioni e meno propensi a informare sull'intervento o a indicare il collega non obiettore.
Il medico, quindi, ha diritto a spiegare le sue ragioni ma anche il dovere di informare obiettivamente il paziente; con il dialogo, concludono gli autori, si possono trovare soluzioni prevenendo eventuali crisi di coscienza.

...e quello del paziente


Dall'ottica del paziente, un'indagine relativa a 230 malati di tumore in fase avanzata del Dana-Farber/Harvard Cancer Center ha evidenziato quanto il problema possa essere sentito in caso di grave malattia e quanto sia disatteso. L'88% ha indicato la religione come almeno di una certa importanza, ma quasi metà ha lamentato che le proprie necessità spirituali erano ampiamente o del tutto insoddisfatte dalla comunità religiosa e il 72% che lo erano analogamente da quella medica; lo specifico supporto di organizzazioni religiose o in ambito clinico è risultato invece fortemente associato a una migliore qualità di vita. L'istanza non era che i medici diventassero consiglieri spirituali, ma che individuassero anche questi bisogni e dedicassero loro attenzione, cioè che la "storia spirituale" (e non solo la "storia clinica") entrasse a far parte della routine di cura e ci si preoccupasse del benessere spirituale oltre che fisico. Per questo obiettivo si suggerivano training specifici o l'inserimento di assistenti spirituali nello staff medico. In sostanza, un'ulteriore sollecitazione a una maggiore empatia tra medico e paziente, indicata oggi come sempre più importante ai fini terapeutici.

Elettra Vecchia



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