Ospiti poco accoglienti

12 marzo 2004
Aggiornamenti e focus

Ospiti poco accoglienti



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Anche se l'intervento chirurgico è perfettamente riuscito l'organismo ospite può giocare brutti scherzi: può, cioè, decidere di non conservare quanto gli è stato donato e di rifiutarlo con un'imponente risposta immunitaria come farebbe con un virus o un batterio. Lo spiacevole fenomeno si verifica in quanto, a meno che il donatore non sia un gemello identico (omozigote), esiste un certo grado di istoincompatibilità tra donatore e ricevente. Ciò è determinato da una famiglia di geni denominata MHC, o complesso maggiore di istocompatibilità, che codifica per delle proteine (nell'uomo si chiamano HLA - human leukocyte antigens) che servono a legare l'antigene (l'aggressore) e presentarlo ai linfociti T (cellule dell'"esercito" immunitario). Poiché le diverse forme dei geni MHC possono assortirsi in vario modo nei singoli individui è molto improbabile che esistano corredi perfettamente identici.
Quindi, quando i linfociti T del ricevente riconoscono come estranei gli alloantigeni (antigeni di individui diversi ma della stessa specie) dell'organo del donatore, presentati da HLA diversi dai propri, ha origine una risposta immunitaria contro l'organo impiantato con tutte le conseguenze.

Tempi e modi di un rigetto


Il rigetto dell'organo trapiantato può avvenire in tempi variabili, generalmente si definisce iperacuto quando si manifesta entro le 24 ore dall'intervento chirurgico.
La rapidità con cui agisce il sistema immunitario è giustificato dalla presenza di alloanticorpi preesistenti, di solito IgG e IgM, evenienza probabile in soggetti che hanno subito trasfusioni, precedenti trapianti o gravidanze: il pregresso contatto con alloantigeni ha già equipaggiato il sistema immunitario di armi per difendersi da ulteriori incursioni.
La formazione del complesso antigene-anticorpo attiva un processo a cascata che provoca il richiamo di neutrofili verso le cellule endoteliali dell'organo e l'aggregazione delle piastrine. L'impianto muore sia per il processo infiammatorio che si sviluppa, sia per la vasocostrizione e l'ostruzione dei vasi sanguigni che impedisce il flusso di nutrienti.
Si parla, invece, di rigetto acuto quando si verifica a più di una settimana dall'intervento. In questo caso la risposta immunitaria è provocata dalle cellule dendritiche (potenti stimolatori della risposta immunitaria) dell'impianto: i linfociti T CD4, CD8 e i linfociti citolitici si attivano ed entrano nella circolazione sanguigna raggiungendo il sito di impianto dove aggrediscono i vasi sanguigni causando la distruzione del tessuto estraneo.
In molti casi il rigetto si verifica dopo un lungo periodo di tempo, anche anni, con un processo tuttora poco chiaro, probabilmente causato dall'intervento di anticorpi e linfociti e caratterizzato da vasculopatia, sviluppo di tessuto connettivo fibroso e progressiva perdita di funzionalità dell'organo. Tra le ipotesi si considera una forma di ipersensibilità ritardata che comporta la secrezione di fattori di crescita che agiscono sulle cellule della muscolatura liscia, le quali proliferando occludono i vasi e impediscono il normale flusso sanguigno.

Come impedire il rigetto


A intervento eseguito si può trattare il paziente per impedire il rigetto. Una possibilità è bersagliare con radiazioni piuttosto intense alcuni organi linfoidi: linfonodi, milza e timo, compromettendo temporaneamente la capacità di risposta immunitaria. Si usano anche farmaci immunosoppressori, somministrati anche contemporaneamente: ciclosporine, corticosteroidi e azatioprine.
La ciclosporina è un potente inibitore della produzione di interleuchina-2 (fattore che stimola la proliferazione di linfociti T), ma avendo effetti collaterali deve essere usata in basse dosi.
I corticosteroidi si usano per lisare (distruggere) determinate popolazioni di linfociti T e per bloccare l'espressione dei geni delle citochinine dei macrofagi, molecole che attivano i linfociti T. Anche in questo caso possono esserci effetti collaterali a carico del metabolismo. Anche l'azatioprina inibisce la proliferazione delle cellule del sistema immunitario, agendo sulla replicazione del DNA.

Se il donatore è non-umano

I più probabili e adatti candidati a donatori di organi non-umani, per i cosiddetti xenotrapianti, sono il maiale e i primati. Ma anche in questo caso, con modalità e tempi simili a quelle appena descritte, si possono verificare le varie forme di rigetto.
Nel caso di rigetto iperacuto gli anticorpi preesistenti nel ricevente hanno come bersaglio un antigene, noto nel maiale come à-gal, un residuo di zucchero presente nelle cellule dell'endotelio del tessuto suino. Il danneggiamento dell'organo avviene per trombosi e ischemia. Per evitare che ciò si verifichi si possono eliminare gli anticorpi xenoreattivi; altra soluzione, ancora non sperimentata, è intervenire sul corredo genico dell'animale: sopprimere l'attività del gene dell'enzima che controlla l'espressione di à-gal.
Il rigetto acuto mediato dai linfociti T e il rigetto cronico seguono processi analoghi a quelli degli allotrapianti, mentre con gli xenotrapianti si può manifestare anche il rigetto acuto vascolare caratterizzato dalla produzione di anticorpi contro l'antigene à-gal, e da un processo infiammatorio che bersaglia il tessuto endoteliale dell'organo impiantato. Tuttavia qualsiasi altro tessuto suino impiantato, anche non vascolarizzato, che presenta xenoantigeni, può indurre una risposta anticorpale nel ricevente e quindi essere rigettata. Le terapie in uso non sono del tutto efficaci, nei modelli animali possono solo prolungare la sopravvivenza. L'approccio alternativo consiste nella creazione di animali ingegnerizzati in cui sono presenti geni in grado di sopprimere la risposta infiammatoria.

Quando l'ospitato si ribella

Una frequente complicazione negli allotrapianti di midollo osseo è una reazione immunitaria del materiale impiantato contro l'ospite, definita GVHD (graft versus host disease) che nella sua forma acuta si manifesta nei primi giorni dopo l'intervento ma può emergere successivamente in forma cronica più grave.
Nella forma acuta, sono i linfociti T del donatore che, una volta all'interno del ricevente (privato del proprio sistema immunitario nella fase di preparazione all'intervento), sulla base degli antigeni HLA lo riconoscono come estraneo e lo aggrediscono. Nonostante la compatibilità tra donatore e ricevente esistono sempre, a meno che non siano gemelli identici, delle differenze a livello di marcatori minori che solo i linfociti T del donatore riescono a rilevare. I sintomi sono piuttosto evidenti poiché le cellule T attaccano la pelle, il fegato, lo stomaco e l'intestino, provocando eruzioni cutanee, dolori e disfunzioni intestinali e ingiallimento della pelle e degli occhi. In questi casi si interviene con farmaci steroidei che risolvono il disturbo con temporanei effetti collaterali
Per ridurre i rischi di GVHD esistono farmaci immunosoppressori come la ciclosporina e il metotrexato usati in combinazione, oppure si procede con la rimozione, mediante sofisticate centrifughe, di gran parte dei linfociti T dal midollo osseo del donatore, ne restano comunque alcuni per assicurare la crescita dell'impianto.
Il meccanismo che scatena il GVHD cronico è poco conosciuto, sembra provocato dalle cellule T che sono cresciute nel ricevente senza maturare normalmente. I sintomi ricordano quelli delle malattie autoimmuni e interessano la pelle, i capelli, la mucosa orale e il fegato; i sintomi possono essere molto vari poiché potenzialmente qualsiasi organo può essere interessato direttamente o indirettamente dal disturbo, anche lo stesso sistema immunitario non funziona come dovrebbe in caso di banali infezioni.

I rischi legati al trapianto di organi sono destinati a diminuire; le nuove tecniche, l'ingegneria genetica e le prospettive aperte dall'uso delle cellule staminali stanno indicando nuove strade percorribili per affrontare l'intervento con una maggior sicurezza di potersi tenere ciò che è stato donato.

Simona Zazzetta



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