Mangiare, camminare e...

17 novembre 2006
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Il diabete Tipo 2, per un buon tratto del suo sviluppo, non è inarrestabile. O meglio, tutte le condizioni che lo precedono e che vengono oggi definite ufficialmente prediabete (intolleranza al glucosio, resistenza insulinica) non esitano necessariamente nella malattia vera e propria. E, come già illustrato da uno studio recente, per impedire la progressione non è neppure necessario ricorrere ai farmaci. Dieta e attività fisica possono bastare a riportare la glicemia nei livelli normali. Però, con questo genere di interventi resta sempre il sospetto che si tratti di una guerra di posizione, nel senso che come si abbandona il controllo occhiuto da parte del medico, i benefici ottenuti svaniscono.

Una dieta semplice


Non sembra però questa la realtà, almeno sulla base dei risultati ottenuti nel follow-up a lungo termine di uno studio finlandese, il Finnish Diabetes Prevention Study. Originariamente la ricerca aveva arruolato poco più di 500 persone, una parte trattata con uno schema dietetico ad hoc, mirato a ottenere una riduzione del peso corporeo di almeno il 5%, e con un programma di attività fisica piuttosto intenso, che si concretizzava in mezz'ora di esercizio al giorno. L'altro gruppo, invece, veniva semplicemente tenuto sotto osservazione. In media si trattava di persone di mezza età (55 anni) con un certo sovrappeso (BMI 31), con una certa prevalenza femminile (più del 60%). La dieta raccomandata non era niente di speciale: grassi ridotti a rappresentare non più del 30% delle calorie, e il 10% per quelli animali, aumento della quota di fibre ad almeno 15 g ogni mille calorie.Ovviamente i partecipanti venivano controllati periodicamente, soprattutto per l'aspetto nutrizionale (in media 6-7 volte nel primo anno. La metà del campione è rimasta nello studio per quattro anni e più, l'altra per periodi inferiori. Buoni i risultati: il gruppo che seguiva la dieta e faceva esercizio presentava un rischio più che dimezzato di passare dal prediabete al diabete vero e proprio: nell'arco di 3 anni le possibilità si riducevano del 58%.

Benefici duraturi


A questo punto, i ricercatori hanno continuato a seguire, ma non a consigliare o motivare, le persone che, trattate o non trattate, erano rimaste esenti dal diabete. Questa seconda fase è durata in media altri tre anni. Alla fine del periodo “prolungato”, l’incidenza del diabete vero e proprio era di 4,3 casi per 100 persone anno nel gruppo che aveva seguito il regime prescritto e di 7,4 nel gruppo di controllo.Insomma un vantaggio significativo anche a lungo termine, quando il controllo medico è meno occhiuto. Infatti se si calcola l’incidenza soltanto per il periodo successivo di osservazione senza consigli, il vantaggio diminuisce, ma resta significativo. Come dire che fatto lo sforzo una volta, poi si va avanti sullo slancio. Inoltre, l’analisi statistica ha permesso di dimostrare che il singolo fattore più importante nella riduzione del rischio è la perdita di peso. Un editoriale che commenta lo studio sottolinea l’importanza del risultato. Infatti, se è vero che gli interventi di questo tipo hanno un costo (non basta distribuire opuscoli illustrativi e dare consigli), il beneficio c’è. Ovviamente, deve anche essere calibrato il tipo di intervento: contatti rari con il medico, per esempio le visite semestrali con telefonate di supporto adottate in altri studi, non hanno ottenuto lo stesso risultato dello studio finlandese, o di un altro studio statunitense, il Diabetes Prevention Program. Il commento ricorda anche l’efficacia di questo tipo di intervento per ridurre i fattori di rischio cardiovascolare e, quindi, un ulteriore benefico per la popolazione. E’ vero, niente di nuovo, lo si è scritto tante volte, ma a giudicare dall’epidemiologia, che vede il diabete in ascesa, non sembra che il messaggio sia passato.

Maurizio Imperiali



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