+ prevenzione - palliazione

25 febbraio 2005
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Secondo dati recenti circa il 10% di tutti i ricoveri ospedalieri in Italia è attribuibile all'alcol. Nell'anno 2000 sarebbero stati 326mila, di cui 100mila riferibili a cause dirette, come gastropatia o cirrosi alcolica, e gli altri a patologie in cui è possibile assegnare una proporzione di responsabilità all'alcol. Numeri che fanno capire quanto sia pesante l'impatto socio-sanitario delle bevande alcoliche. Eppure nell'occhio del ciclone sembrano finire solo i fumatori, con provvedimenti sempre più restrittivi. E gli alcolisti? A ribadire la necessità di un intervento sanitario anche in quest'area, uno studio, pubblicato su Lancet, ha messo in evidenza come il consumo di alcol sia responsabile di un aumento delle malattie e della mortalità.

L'impatto socio-sanitario


Una premessa a parziale rivincita dei fumatori: l'alcol sembrerebbe responsabile dello stesso carico di malattie provocato dal tabacco. Infatti - riferiscono gli esperti dell'Università di Stoccolma, autori dello studio condotto in collaborazione con colleghi canadesi e statunitensi - circa il 4% del totale delle malattie nel mondo è provocato dalle conseguenze dell'alcol, rispetto al 4,1% di quelle causate dal tabacco. Come a dire un impatto socio sanitario molto simile e comunque di maggior peso, per esempio, rispetto a colesterolo e obesità. La relazione tra consumo di alcolici e malattie è, comunque, complessa e multidimensionale. L'alcol - precisano i ricercatori svedesi - è all'origine di 60 diverse malattie, dal cancro al seno alle malattie cardiache. A condizionare gli effetti nocivi non solo la quantità di alcolici consumata ma anche la modalità di consumo, come per esempio il bere in modo irregolare. Più specificamente se normalmente è quanto si beve a determinare il rischio, esistono specifiche eccezioni come l'area cardiovascolare (malattie coronariche, ictus, diabete mellito) in cui altri aspetti del consumo, come il profilo del consumatore contano di più. Ma che cosa si può fare? Due i livelli di intervento - sottolineano gli autori - quello clinico e quello politico.

Come intervenire


Quando una diagnosi rivela un paziente con un disturbo mentale e comportamentale legato al consumo di alcolici, esiste un ampio ventaglio di decisioni cliniche disponibili. Per consumatori rilevanti ma non dipendenti, un intervento di primo livello mira alla riduzione del bere a livelli più moderati. Chiaramente quando si passa a consumi smodati esiste tutta una serie di disturbi associati da non sottovalutare. L'intervento diventa perciò più articolato e prevede sia la gestione delle patologie acute, psichiatriche e non, per le quali esistono e sono efficaci svariati interventi sia farmacologici sia comportamentali, sia l'assistenza a livello sociale. Per metterli in atto, però, sottolineano i ricercatori, serve una politica socio-sanitaria mirata. E qui si viene alle note dolenti. E' dimostrato che l'aumento dei prezzi degli alcolici e un maggiore controllo nelle vendite possono ridurne il consumo. Più precisamente, almeno per la Gran Bretagna, a un incremento del 10% dei prezzi degli alcolici corrisponderebbe un calo del 7% dei decessi dovuti a cirrosi epatica negli uomini e dell'8,3% nelle donne. In più la stessa misura produrrebbe una riduzione del 28,8% negli uomini e del 37,4% nelle donne delle morti legate, in generale, all'alcolismo. Ma oltre ai prezzi potrebbero essere efficaci anche misure riguardanti orario e giorni di apertura dei locali e dei negozi, dove si possono bere e comprare alcolici. Chissà cosa ne pensa l'industria dell'alcol? Ora la palla passa all'OMS, urge, infatti, concludono i ricercatori, una politica internazionale che coordini le leggi nazionali. Una missione tutt'altro che facile.

Marco Malagutti



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