C'è un gene distratto?

29 ottobre 2004
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C'è un gene distratto?



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L'ADHD è uno dei disturbi psichiatrici più dibattuti negli ultimi tempi, anche se la prima descrizione dei sintomi risale al 1902 a opera dell'inglese George Still. Trattandosi di un disturbo tipico dell'infanzia, tanta attenzione è comprensibile; il fatto che solo da qualche anno se ne discuta tanto è dovuto, soprattutto, ai dubbi sul larghissimo ricorso alla terapia farmacologia che si fa negli Stati Uniti. La sigla sta per Attention Deficit and Hyperactivity Disorder, ovvero disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Una volta tanto la definizione è comprensibile: il bambino che ne è colpito non è in grado di restare focalizzato sugli eventi esterni, sugli stimoli ambientali, per un tempo adeguato e, inoltre, mostra un'incapacità più o meno grave a restare fermo. Insomma il bambino distratto e sempre pronto ad alzarsi dal banco o da tavola senza apparente ragione. Non stupisce, dunque, che sia soprattutto in età scolare che viene la diagnosi: infatti è il primo ambiente che il bambino incontra nel quale gli siano richiesti tanto attenzione quanto disciplina. Peraltro oggi si distinguono tre forme differenti, a seconda che prevalga la disattenzione (come avviene più spesso nelle bambine), oppure l'iperattività e impulsività (forma più frequente nei bambini) o che queste coesistano in misura più o meno equivalente (il disturbo classico).

Diagnosi difficile


I sintomi, però, sono abbastanza aspecifici, senza contare che in psichiatria è quasi sempre una questione di gradi: un conto è la vivacità, un altro l'iperattività, le manifestazioni possono assomigliarsi ma differiscono per intensità. In altre parole la scarsa attenzione può essere dovuta a caratteristiche dell'ambiente, una lezione poco interessante, ma altra cosa è non riuscire a seguire nemmeno la spiegazione di un atto relativamente semplice. Di qui il rischio riconosciuto di eccedere nelle diagnosi di ADHD oppure di trascurare i casi reali.
Recentemente, e questa circostanza potrebbe essere decisiva per migliorare la capacità diagnostica, si è andata affermando la concezione dell'ADHD non più disturbo del comportamento, in senso ampio, ma come disturbo neuro-biologico, cioè con basi organiche. L'ipotesi viene dalla diagnostica per immagini, alla quale sono risultate alcune caratteristiche tipiche nei piccoli pazienti. Innanzitutto c'è un volume inferiore allo standard di cervello e cervelletto, e ci sono anomalie a carico della corteccia prefrontale destra e di altre aree alla base: il nucleo caudato e il globo pallido. In linea più generale, alcune aree hanno una funzionalità ridotta e altre una funzionalità superiore alla norma, e a essere ipofunzionanti sono proprio le aree cui spetta il controllo dell'attenzione. Insomma il bambino sarebbe meno attrezzato in partenza per soffermarsi sugli stimoli esterni.

Alcol, fumo e infiammazioni


Le cause, sempre partendo da un'ipotesi organicista, sono sia genetiche sia ambientali. In effetti sono stati individuati almeno 10-20 geni che potrebbero avere un ruolo nell'origine del disturbo, alcuni dei quali sono coinvolti nella funzione del neurotrasmettitore dopamina. I fattori ambientali si incentrano sulla vita neonatale: il basso peso alla nascita, la nascita pretermine (prima di 32 settimane) possono aumentare notevolmente il rischio. Più recentemente, si sono aggiunte come possibile concausa le corioamnioniti, stati infiammatori delle strutture embrionali che ora si ritiene possano causare danni cerebrali al nascituro. Dal punto di vista della gestazione, si hanno prove che l'uso da parte della futura mamma di alcol o tabacco hanno un peso non indifferente: sia direttamente sia perché determinano basso peso alla nascita. Il fumo, per esempio, ha mostrato negli studi sull'animale di interferire direttamente con il sistema dopaminergico del nascituro, causando un aumento dei recettori liberi.
Tuttavia, anche ipotizzando la presenza di queste situazioni organiche, resta il fatto che se il piccolo paziente viene intercettato per tempo, e si avvia una terapia psico-educativa comportamentale, è possibile nelle forme lievi far sì che il bambino non richieda neppure l'ausilio dei farmaci, di norma avviato verso i sette anni. Questo genere di interventi richiede ovviamente l'impegno concreto dei genitori per sviluppare il funzionamento del bambino, accanto allo psicologo e all'insegnate. Probabilmente una maggiore attenzione anche ai bisogni "intellettuali" del bambino consentirebbe di ridurre tutte le situazioni di disagio e di scarsa capacità di interazione con l'ambiente, che non sono sempre dovute a una malattia.

Maurizio Imperiali



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