Se il farmaco discrimina tra i sessi

20 giugno 2008
Aggiornamenti e focus

Se il farmaco discrimina tra i sessi



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La festa, ma forse sarebbe meglio dire la giornata, della donna non è priva di significato anche dal punto di vista medico. Da una parte è l'occasione per vedere quanto si è ottenuto in fatto di pari opportunità anche nella carriera medico-sanitaria, dall'altra per tracciare la considerazione della donna (e del corpo femminile) che la medicina ufficiale ha oggi.
Per il primo aspetto basterebbe ricordare che l'unico recente Nobel italiano per la medicina si chiama Rita Levi Montalcini, o che tra i ministri della sanità che più hanno inciso positivamente sulla gestione della salute in Italia vanno annoverate tre signore: Tina Anselmi, Maria Pia Garavaglia e Rosy Bindi. E venendo alla cronaca più vicina, è innegabile che le rare volte in cui si ascoltano argomenti chiari sulla "mucca pazza" è perché a parlare è Maria Caramelli, responsabile del Centro di Riferimento Italiano per la BSE.
Altrettanto significativo è il fatto che negli Stati Uniti una donna, la cardiologa Bernadine Healy, sia stata a capo dei National Institutes of Health (NIH), il principale ente di ricerca pubblico.
Ed è stata proprio Bernadine Healy a sollevare la questione principale: la medicina tiene conto delle specificità femminili?

Il caso della trombolisi


Fino a non molto tempo fa, denunciò la Healy agli inizi degli anni novanta, i grandi trial clinici, sulla base dei quali si decide della validità delle terapie, erano condotti prevalentemente sugli uomini. In pratica, come ha scritto in un suo libro, era "in base all'uomo che si decide che cosa è normale". Questo non è privo, ovviamente di conseguenze molto concrete. Per esempio, in caso di infarto si sa che si ricorre alla trombolisi, cioè alla somministrazione di farmaci in grado di rimuovere le ostruzioni delle arterie. Sfortunatamente, però, i primi studi avevano riguardato soprattutto popolazioni maschili e anche i dosaggi erano calcolati su questa base; di qui un discreto numero di emorragie dovute a sovradosaggi.
Ma non si tratta soltanto di farmaci: anche nella diagnostica si è a lungo trascurato che il corpo femminile presenta caratteristiche differenti. Per esempio, nelle donne l'elettrocardiogramma sotto sforzo, in alcuni trial, ha mostrato una percentuale molto alta di falsi positivi rispetto agli uomini: 40% contro 10%. Oppure il fatto che la presenza di un seno abbondante rende meno facilmente interpretabile l'ecocardiogramma.

Una situazione sanata solo da poco


In generale tutt'ora gli studi clinici sui farmaci vedono una minore partecipazione femminile. Infatti se si escludono quelli che possono essere condotti solo con una popolazione femminile, per esempio sugli anticoncezionali, le donne arruolate nei trial rappresentano il 38%, a dispetto che la popolazione generale vede, semmai, gli uomini in minoranza.
A questa situazione hanno concorso parecchi fattori, a cominciare dalla necessità di proteggere il feto. Infatti, ancora nel 1977, l'FDA raccomandava di escludere dagli studi tutte le donne in età fertile che avrebbero potuto concepire, anche se usavano anticoncezionali, oppure avevano partner vasectomizzati o semplicemente erano single. Il divieto si riferiva agli studi iniziali, ma di fatto ciò ha significato l'esclusione anche dalle altre fasi nelle quali la sicurezza del farmaco è già in larga misura stabilita. Per inciso, una bella sottovalutazione della capacità femminile di fare una scelta e di tenerla ferma.
C'è poi una questione di costi: le donne, in rapporto all'età, hanno tassi di mortalità inferiori rispetto agli uomini, di conseguenza sono necessari campioni più numerosi e studi più lunghi. Non mancano alcuni aspetti sociali da tenere presenti: il primo è che molto spesso le donne assistono altre persone (dai figli ai parenti infermi) e quindi hanno meno tempo, il secondo, più caratteristico degli Stati Uniti, è che lavorando spesso nel precariato o part-time, non hanno copertura assicurativa sull'assenza per malattia.
La conseguenza è, quindi, che soltanto molto tardi nel corso della sperimentazione si possono cominciare a considerare le differenze tra i sessi in termini, per esempio, di dosaggi.
Bisogna arrivare a tempi recenti per apprezzare i cambiamenti, grazie soprattutto alla spinta della Healy: nel 1993 Food and Drug Administration e NIH hanno cominciato a rivedere le regolamentazioni per promuovere la partecipazione femminile ai trial.

Ma partecipare non basta

Ma anche quando il campione è sufficientemente omogeneo, non sempre i ricercatori traggono dagli studi tutte le conseguenze dovute. In altre parole, anche quando le donne sono presenti non è detto che si ricerchino i dati relativi, per esempio, al diverso assorbimento dei farmaci o alle sue interazioni con gli ormoni femminili. L'analisi distinta per sessi è fondamentale, dunque, anche perché potrebbe ben accadere che un farmaco sia efficace soltanto nell'uomo o nella donna e che possa venire comunque "bocciato" perché, considerando i dati nell'insieme, risulta poco attivo.
Ma anche una volta che il mondo della ricerca si è orientato in questo senso c'è il grave ostacolo della diffusione di queste conoscenze, sia nel pubblico generale sia tra gli stessi medici. Sembrerà strano, ma ancora nel 1995 tre medici di famiglia statunitensi su 10 ignoravano che le malattie cardiologiche erano già la prima causa di morte nella popolazione femminile, così come lo ignorava l'80 per cento delle donne stesse.

Un cambiamento forte

Nel 1882 un medico di fama scrisse che il creatore "aveva concepito il genere femminile partendo dall'utero e costruendo attorno la donna". Questo era senz'altro il riconoscimento della sostanziale differenza tra uomo e donna ma anche la condanna a misconoscere gli altri aspetti che concorrono alla salute della popolazione femminile. Un misconoscimento aggravato dal fatto che, complice anche una certa lettura di Freud, le donne sono a lungo state considerate ipocondriache e, come si suol dire con molto cattivo gusto, isteriche.
Oggi la visione è senz'altro meno ristretta: merito almeno in parte del fatto che dalla fine dell'Ottocento anche le donne hanno cominciato a essere ammesse nelle facoltà di medicina. E a prendere in mano la loro salute.

Maurizio Imperiali



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