Ciclismo poco etico

22 giugno 2005
Aggiornamenti e focus

Ciclismo poco etico



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Il termine doping nel mondo del ciclismo non è una novità. Se ne parla, infatti, dai tempi di Coppi e Bartali. Per questa ragione, molti osservano, c'è sempre stato e ci sarà sempre ed è ipocrita voler vietare tutto. Sarà, ma qualcosa che non va ci deve essere in un ciclismo che considera doping solo quello che viene individuato ai controlli. E la situazione va peggiorando visto che gli episodi di morte inspiegabile si sommano e si parla sempre di più di macchinette per controllare il sangue, ematocrito ed espansori del plasma e sempre meno della competizione vera e propria. Di questo, ma non solo, si è parlato a una giornata di studio svoltasi la settimana scorsa a Milano e intitolata "Doping, aspetti analitici, normativi e giuridici". Tra i relatori Giovanni Tredici del Dipartimento di Neuroscienze dell'Universita Statale della Bicocca a Milano, ma soprattutto medico al seguito del Giro d'Italia da anni. Chi meglio di lui può raccontare come si è evoluto il fenomeno doping?

Un fenomeno in crescita


Secondo il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) si considera doping l'uso o la somministrazione di sostanze estranee all'organismo, o di sostanze fisiologiche assunte in quantità anormale da soggetti in buona salute, allo scopo di ottenere un incremento artificiale della performance. Per cominciare Tredici ha messo in rilievo come le sostanze vietate siano sempre quelle della tabella fissata nel 1984 dal CIO. Quali? Innanzitutto gli stimolanti, le anfetamine in particolare, e la caffeina. Sostanze con le quali si aumenta la resistenza allo sforzo ma che hanno generato veri e propri casi di tossicodipendenza. Il medico milanese ha raccontato il caso di Vandervelde, ciclista olandese in auge negli anni '80, che dopo aver scollinato in cima allo Stelvio, in una tappa epica del giro, è stato fermato dal suo stesso direttore sportivo. Il motivo? E' venuto fuori solo anni più tardi, ma si trattava del rischio di positività alle anfetamine ai controlli successivi, vista la dipendenza accertata del corridore. Ora questo genere di sostanze circola ancora anche se in forma modificata e più elaborata. Tra le altre sostanze poi ci sono i narcotici, poco utilizzati, e gli agenti anabolizzanti molto in voga negli anni '80 sia per migliorare le prestazioni sia per lenire il dolore che insorge a causa di un allenamento intenso e impegnativo. La lista prosegue con i diuretici e gli agenti mascheranti, molto utili da che i controlli sono diventati più severi. E poi ancora sostanze come la cannabis e i betabloccanti. Quanto alle pratiche e ai metodi vietati si va dal doping ematico con pratiche come le trasfusioni o il ricorso all'eritropoietina al doping genetico, dalle sostanze che modificano il pH del sangue, i cosiddetti plasma expander, a quelle che modificano il campione di urina. Pratiche che sono andate diffondendosi dalla fine degli anni '80 grazie a centri particolarmente zelanti come quello di Ferrara del professor Conconi. E' qui che sono state effettuate le prime ricerche sulla manipolazione del sangue (autoemotrasfusione) e sempre qui, con atleti di fama e di successo come testimonial, sono state sperimentate e utilizzate nuove sostanze come l'eritropoietina, che stimola la produzione dei globuli rossi, favorendo le prestazioni aerobiche. Ma non si può fare nulla per contrastare un fenomeno così dilagante? Un codice etico per i ciclisti è stato emanato nel 1999 con intento sicuramente positivo e con parole inequivocabili laddove si dice che " il doping è fenomeno idoneo a distruggere l'etica dello sport, la correttezza sportiva, la regolarità e l'imparzialità delle gare". Già, ma in pratica? Il ruolo del medico, denuncia Tredici, è sempre più marginale. Il ciclista, infatti, sfugge sempre più il colloquio con il medico di gara e può succedere addirittura che rifiuti l'assistenza in corsa. E' sempre più in voga così il fai da te. Forse occorre che la figura del medico ritorni centrale e abbandoni la filosofia del "non vedo-non sento-non parlo", potrebbe essere un passo perché non siano proprio i medici che non danno medicine proibite a essere evitati dagli atleti.

Marco Malagutti



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