Il PSA previene o anticipa?

20 gennaio 2006
Aggiornamenti e focus

Il PSA previene o anticipa?



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Si può affermare che il PSA, l'acronimo di Antigene Prostatico Specifico, è un infallibile strumento diagnostico per rilevare il cancro alla prostata? Purtroppo no, anzi: i dubbi sono molti. E non si tratta di una novità visto che dal 1979, anno della sua introduzione, dopo un iniziale entusiasmo, non si è ancora giunti a una posizione univoca sulla sua efficacia. L'unica cosa chiara è che il paziente dovrebbe decidere se sottoporsi allo screening solo dopo essere stato informato su rischi e benefici. Sulla stessa lunghezza d'onda uno studio caso-controllo, pubblicato sugli Archives of Internal Medicine, non fa che rilanciare i dubbi.

Quali dubbi?


Un dato prima di tutto. Tra tutti i tipi di cancro che colpiscono la popolazione maschile americana, l'adenocarcinoma della prostata è il primo per incidenza (232090 diagnosi) e secondo per mortalità (30350 decessi). In Italia le cose non vanno molto meglio, visto che ogni anno, secondo le più recenti statistiche, sono 14 mila le nuove diagnosi di cancro alla prostata, che rappresenta la seconda causa di morte per tumore tra gli uomini. A questi va aggiunto un numero considerevole di casi che sfuggono ai test e che restano spesso silenti. Il PSA è, in coppia con l'esame rettale, il test di screening per eccellenza, dicono i ricercatori, ma già le raccomandazioni sul suo utilizzo sono contrastanti. L'American Cancer Society e l'American Urological Association raccomandano questo screening per il cancro alla prostata negli uomini oltre i 50 anni. Altre associazioni, in controtendenza e decisamente più caute, come l'American College of Physicians richiedono un counselling su possibili rischi e benefici e, ancora più drastica, la US Preventive Services Task Force non riscontra sufficienti evidenze per raccomandare l'esecuzione a tappeto del test. Un conto, infatti, è aumentare l'identificazione del tumore, un altro ridurre la mortalità.

Ma la mortalità è poco influenzata


E proprio questo è il punto della questione: a oggi non esistono prove scientifiche che l'indagine con il PSA riduca il numero di persone che muoiono di tumore, come succede per esempio con il Pap-test e il tumore dell'utero. Ed è vero che si è registrata una sopravvivenza più lunga a partire dalla diagnosi, ma semplicemente perché si scopre il tumore prima che inizino i sintomi. Per cui si è consapevoli di essere malati ma si muore allo stesso momento. Lo studio pubblicato dagli Archives, pur senza risultati definitivi, non fa che aumentare lo scetticismo. I ricercatori statunitensi hanno preso in esame 71661 pazienti, presso 10 centri medici riservati ai veterani, che abbiano ricevuto cure tra il 1989 e il 1990. Cinquecentouno di questi sono pazienti cui è stato diagnosticato un adenocarcinoma della prostata tra il 1991 e il 1995 e che sono successivamente morti, per qualsiasi causa, tra il 1991 e il 1999. Confrontandoli con altri pazienti coetanei, i ricercatori hanno cercato di definire se il PSA, o in alternativa l'esame rettale, fossero stati effettuati prima della diagnosi di cancro alla prostata. E il risultato è stato che non si è riscontrato alcun beneficio dello screening né a una prima analisi, che ha considerato solo il PSA, né a una seconda, in cui si è considerato anche l'esame rettale. Un'ulteriore conferma dello scarso ruolo dell'esame nel ridurre la mortalità. L'editoriale così rilancia la necessità di attendere i risultati di due grandi studi in corso in Europa e negli Stati Uniti, che conteranno il numero delle morti per tumore che si saranno risparmiate dosando il PSA in oltre 200000 uomini. E nel frattempo? La parola d'ordine è cautela. I pazienti vanno adeguatamente informati su rischi e benefici e non falsamente rassicurati, visto che il 20% dei carcinomi hanno antigene basso ma il cancro esiste lo stesso.

Marco Malagutti



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