Tiroide lenta, il cuore anche

14 dicembre 2005
Aggiornamenti e focus

Tiroide lenta, il cuore anche



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Che i mali non vengano mai soli non è solo un luogo comune né un malaugurio, ma solo l'evidenza di una complessità che appartiene all'organismo umano (e animale). Va da sé che se qualche ingranaggio del meccanismo vitale rallenta, si rovina o funziona male o in modo non adeguato, tutta la macchina ne risente. Non a caso esistono numerosissimi studi che testimoniano, con dati statistici o con spiegazioni fisiologiche, tali associazioni maligne. E il modello si ripete anche per chi soffre di disturbi alla tiroide.L'associazione dell'ipotiroidismo con la patologia cardiovascolare, per esempio, è stata ampiamente dimostrata, ed è ipotizzabile e, anzi, accettata, la conclusione che il rischio cardiovascolare aumenti con la gravità della disfunzione ghiandolare.

Questione di sfumature


Ma non sempre il disturbo tiroideo è palesemente manifesto, in quanto esistono forme subcliniche, caratterizzate da elevati livelli di tireotropina (TSH o ormone tiroide stimolante) e normali livelli di tiroxina (T4 o ormone tiroideo). Questa variante interessa il 10% delle donne ultrasettantenni, e quote leggermente più basse negli uomini, ma la sua prevalenza tende ad aumentare con l'età. A livello clinico, si registrano, come per la forma pienamente manifesta, molti fattori di rischio cardiovascolare. Per esempio, si hanno concentrazioni maggiori del colesterolo totale e delle LDL (il cosiddetto colesterolo cattivo), aumentano i livelli di proteina C reattiva (coinvolta nei processi infiammatori) e la probabilità di sviluppare aterosclerosi. Per quanto gli studi in proposito siano contraddittori e poco chiarificatori, l'ipotesi di un collegamento tra le due condizioni patologiche non può essere escluso del tutto. In effetti, sono molti i lavori scientifici in cui non è stato possibile rilevare l'associazione tra ipotiroidismo subclinico e la mortalità per cause cardiovascolari, ma se esiste una gradualità della gravità dell'ipotiroidismo conclamato e l'intensità del rischio cardiovascolare, allora potrebbe anche esistere la possibilità di stabilire una gradualità della forma subclinica e stratificare così il rischio. Da questo presupposto hanno avuto origine due studi, chiaramente con l'obiettivo di definire l'ambito di gravità in cui era necessario intervenire con terapie idonee a normalizzare la funzionalità tiroidea. Tradotto in termini operativi: definire il livello soglia della concentrazione di TSH oltre il quale è ragionevole trattare il paziente.

Soglia di attenzione


I soggetti del campione in studio non sono stati selezionati in base ad alcun criterio di inclusione e dei quasi tremila di uno e dei circa duemila dell'altro sono stati misurati i livelli di TSH nel sangue. Con questo metodo è stato possibile osservare una popolazione senza caratteristiche cliniche peculiari, che si avvicinasse il più possibile alla popolazione generale. Negli anni di monitoraggio, quattro in un caso, 20 nell'altro, si è potuto verificare la prevalenza di malattie cardiovascolari, come l'insufficienza cardiaca congestizia e la malattia coronarica. Nello studio più breve l'età oscillava tra i 70 e i 79 anni, e la percentuale di pazienti con ipotiroidismo subclinico era simile a quella della popolazione generale (12,4%); qui l'incidenza dell'insufficienza cardiaca era significativamente più elevata nei pazienti con la forma moderata e grave mentre non aumentava tra i pazienti con la forma lieve. Nel monitoraggio ventennale i pazienti erano più giovani, mediamente cinquantenni, la percentuale con la disfunzione subclinica era, ovviamente, più bassa, 5,6%, e la frequenza degli eventi cardiovascolari, in particolare la malattia coronarica, aumentava in modo significativo solo nei casi di ipotiroidismo subclinico in forma grave. La gradualità della disfunzione tiroidea veniva scandita da intervalli di concentrazione del TSH, per cui nella forma grave era pari o superava le 10 mIU/L, in quella moderata era tra 7 e 9,9 mIU/L, in quella lieve tra 4,5 e 6,9 mIU/L.Sovrapponendo i due risultati emerge che i pazienti a rischio maggiore sono quelli con i livelli di TSH oltre i 10 mIU/L, che il trattamento potrebbe essere indicato, soprattutto nei pazienti molto anziani e, infine, che esiste una finestra di valori, tra 2 e 7 mIU/L in cui il rischio è talmente basso che la terapia tiroidea probabilmente non servirebbe per prevenire le malattie cardiovascolari.

Simona Zazzetta



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