La macchia nera che rende ciechi

16 marzo 2005
Aggiornamenti e focus

La macchia nera che rende ciechi



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Sono circa 25-30 milioni nel mondo le persone affette da degenerazione maculare senile e di queste 4-5 milioni si possono definire "legalmente ciechi". Con l'avanzare dell'età poi e in particolare con l'invecchiamento della cosiddetta "baby boom generation" ci si aspetta che questi numeri triplichino entro il 2025. Già queste cifre sarebbero ragione sufficiente per portare all'attenzione generale la patologia, ma a questo si deve aggiungere che la consapevolezza della malattia, persino nel mondo medico, non è così diffusa. Le stime parlano di un 14% a livello europeo e in Italia siamo in coda alla classifica, visto che da un recente sondaggio Doxa, la degenerazione maculare senile è risultata nota solo al 3,1% degli intervistati, mentre il 22,4% ne ha solo sentito parlare e ben il 74,5% non la conosce affatto. A Londra si è svolto, perciò, un workshop, patrocinato da Pfizer Ophthalmics, finalizzato a esplorare tutti gli aspetti della malattia, la principale causa di gravi riduzioni del visus per le persone oltre i 50 anni nel mondo occidentale. Ma che cos'è esattamente la degenerazione maculare senile?

La malattia


Si tratta - come ha illustrato Usha Chakravarthy dell'Università di Belfast - di una patologia della retina, che comporta una perdita della visione centrale. La parte che subisce la degenerazione è la macula, la zona centrale e più sensibile, che ha il compito di fornire una visione nitida di quanto si trova al centro del campo visivo. Succede così che guardando un oggetto, la parte centrale appare coperta da una macchia nera, mentre i contorni sono visibili ma in modo sfuocato e distorto. La vita quotidiana ne risulta così, inevitabilmente condizionata e attività come guidare o leggere o ancora cucinare sono compromesse. Se la degenerazione maculare non si presenta subito in forma grave, ci sono alcuni campanelli d'allarme che possono mettere in guardia. Un lento e graduale calo della vista, con immagini distorte o ondulate o peggio con macchie scure, sono segnali da non sottovalutare e da non attribuire banalmente all'età. La malattia in genere si manifesta in un occhio con un 43% di possibilità di manifestarsi anche nell'altro nel giro di cinque anni. La malattia, come premesso, colpisce soprattutto dopo i 50 anni e la sua incidenza aumenta con l'aumentare dell'età. Dopo i 75 anni, ne è colpito quasi il 30% della popolazione con conseguenze che possono degenerare fino alla cecità. La degenerazione della macula si può presentare in due forme: non essudativa, detta anche non neovascolare o secca, e essudativa o neovascolare o umida. La prima è la più diffusa ed è caratterizzata da depositi puntiformi, detti drusen, che provocano una lenta atrofia della retina. La forma non-essudativa può degenerare nell'altra più grave e più rara in cui vasi sanguigni indesiderati rompono la membrana retinica. La progressione della malattia in questo caso è molto rapida, non più di poche settimane, e pur rappresentando solo il 10% dei casi di malattia è responsabile del 90% dei casi di cecità. La sequenzialità tra le due forme - ha precisato Alan Bird del Moorfields Eye Hospital di Londra - è tale che si può tranquillamente parlare di forma precoce e tardiva. Ma quali sono i fattori di rischio?

Fattori di rischio e terapia


I fattori di rischio sono prevalentemente genetici e ambientali. La malattia è cioè ereditaria e legata all'età, come più volte ribadito. Un fattore di rischio sembra poi rappresentato dall'appartenenza al sesso femminile. Le donne, infatti, colpite da più gravi forme di miopia e con un'aspettativa di vita più lunga sono più a rischio di degenerazione. Esistono poi fattori di rischio legati alla conduzione di una vita sana e sono quelli modificabili: il fumo di sigaretta, l'esposizione eccessiva alla luce solare, la dieta ricca di grassi animali. Il ruolo di queste abitudini malsane è stato confermato da un paziente, presente al workshop per raccontare la sua esperienza. Ma si può curare? Nel caso specifico vale più che mai la regola che prevenire è meglio che curare, per cui è consigliabile ai pazienti, soprattutto se per qualche ragione a rischio, visite regolari dopo i 40 anni. La terapia vera e propria, invece, almeno per il momento punta a limitare i danni attraverso due trattamenti standard: la fotocoagulazione laser, che mira a distruggere l'area della retina interessata dal processo di neovascolarizzazione, e la terapia fotodinamica, che riesce a chiudere i vasi sanguigni in eccesso senza danneggiare i tessuti sani, attraverso l'iniezione endovenosa di una sostanza chiamata verteporfina. La prima tecnica presenta qualche rischio in più e per questo la percentuale d'uso non supera il 10%, per l'altra si arriva al 35% dei casi trattabili, ma per tutte e due vale una esigua riduzione nella perdita della vista. Nessuna speranza, perciò? Si, dicono i ricercatori e due sono le direzioni più seguite. Da una parte la terapia genica, più targetizzata e favorita dalle recenti scoperte. L'ultima, appena pubblicata da Pnas, riguarda la scoperta della variante genetica che aumenterebbe il rischio. L'altra possibilità è rappresentata dai nuovi farmaci. Uno su tutti sodio pegaptanib iniettabile, appena approvato dall'Fda e di prossima approvazione in Europa, dove si spera possa arrivare per il 2006. Si tratta di un farmaco da somministrare per iniezione intraoculare e in grado di bloccare il processo degenerativo, anche se non può restituire quanto perso. Sembra poco ma è già un successo.

Marco Malagutti



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