Più peso meno farmaco

24 giugno 2005
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Più peso meno farmaco



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Se il tumore è una patologia generalmente maligna e di esito infausto, la forma che colpisce il seno si è rivelata, grazie alla diagnosi precoce e alle terapie, molto più trattabile di quanto temuto. In questo quadro, sostanzialmente più favorevole rispetto ad altri casi, risaltano i risultati relativamente più scarsi ottenuti con le donne malate sovrappeso o obese.

Obese a rischio


L'eccesso di peso rappresenta infatti, da una parte, un fattore di rischio per lo sviluppo del tumore al seno dall'altra un fattore predittivo negativo nelle donne colpite dalla malattia. Quando il peso supera del 20-25% quello ideale il rischio diventa 1,3 volte più alto rispetto alle donne in peso-forma. L'associazione è multifattoriale. Esiste una spiegazione biochimica rintracciabile nel legame che esiste tra un più elevato livello di insulina, l'aumento dell'indice di massa corporea e i livelli di estrogeni, ormoni coinvolti nella patogenesi della malattia. Tuttavia un'altra possibile ragione risiede nell'adeguatezza del dosaggio dei farmaci chemioterapici impiegati nella cura. Questo potrebbe essere un fattore decisivo che fa la differenza di esiti tra donne in sovrappeso o obese e quelle normo-peso. Mentre per le ultime il calcolo del dosaggio è semplice, per le altre diventa più complicato e circondato da un certo margine di incertezza. Infatti le dosi di questi farmaci si basano sulla stima dell'area di superficie corporea, che a sua volta calcolata usando l'altezza della paziente e il peso espressi in metri quadrati. Va da sé che nelle donne obese questo numero è esposto a oscillazioni notevoli rispetto alla norma, tali che i medici arbitrariamente decidono per una sottostima del dosaggio, per evitare i temuti effetti tossici del farmaco. In pratica, di fronte a dosi teoricamente giuste ma molto più elevate della norma, il medico preferisce agire con cautela.

La dose giusta


Un gruppo di ricercatori americani ha verificato questa ipotesi su circa 9600 pazienti trattate con una combinazione di doxorubicina e ciclofosfamide. Lo studio si è svolto nell'arco di un decennio, e il principale esito misurato è stato la qualità della chemioterapia somministrata a dosi ridotte o a dosi "piene".In realtà gli studi clinici condotti in questa direzione non sostengono la pratica delle dosi ridotte anzi, sono numerose le evidenze che dimostrano che le pazienti obese non hanno un aumento degli effetti quando le dosi sono coerenti con il peso attuale. Oltre al fatto che questo tipo di calcolo è associato a una migliore sopravvivenza generale e senza recidive anche in pazienti gravi. Tale tendenza si conferma anche nel corrente studio: la sopravvivenza senza ricadute era peggiore se le dosi erano ridotte mentre non c'erano differenze con le pazienti non obese se le dosi venivano calcolate senza compensazioni arbitrarie. Anche la neutropenia febbrile, un abbassamento del livello dei neutrofili dovuto alla chemioterapia che richiede ospedalizzazione, era meno comune nelle pazienti gravemente obese trattate con il dosaggio "pieno". E non è un caso che le pazienti che avevano ricevuto un primo ciclo ridotto abbiano poi ricevuto un ciclo aggiuntivo (nel 16% dei casi) e un sesto ciclo oltre i quattro cicli standard. Con il risultato di aumentare il dosaggio totale del trattamento senza però raggiungere l'intensità di dosaggio raggiunta con quello a regime pieno.

Simona Zazzetta



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