Il rischio della sovradiagnosi

27 marzo 2009
Aggiornamenti e focus

Il rischio della sovradiagnosi



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Il test del PSA (antigene prostatico specifico) è entrato da tempo nei programmi di screening per il tumore della prostata, ma il suo effetto rispetto alla mortalità per il tumore resta da definire. Hanno indagato su questo aspetto due vaste ricerche, una europea e una statunitense, i cui risultati riferiti al Congresso europeo di Urologia di Stoccolma, in contemporanea con la pubblicazione sul New England Journal of Medicine, hanno suscitato in questi giorni un certo clamore. Infatti sembrano portare a conclusioni opposte: per gli europei il vantaggio c'è e il tasso di mortalità si riduce del 20%, per gli americani la diminuzione è molto bassa e non significativa. Questo può sconcertare, ma i risultati non sono finali e, al di là delle apparenze, gli studi non sono propriamente in conflitto: soprattutto, ci sono differenze per metodologie e popolazione studiata che possono portare a valutazioni diverse.

Meno mortalità più sovradiagnosi


La ricerca ERSPC, iniziata nei primi anni Novanta, riguarda 182.000 uomini tra 50 e 74 anni residenti in sette paesi europei, sottoposti a test del PSA ogni quattro anni, confrontati con altri senza il test. Il gruppo centrale all'esame era costituito dai circa 162.000 partecipanti nella fascia 55-69 anni e il periodo di osservazione medio per determinare il tasso di mortalità è stato di nove anni. Il tumore ha avuto un'incidenza dell'8,2% nei sottoposti al test e del 4,8% negli altri; il tasso di mortalità per il ca prostatico è risultato lo 0,8 nei primi rispetto ai secondi cioè diminuito del 20%. La riduzione assoluta del rischio è stata di 0,71 morti per mille uomini, che significa che per prevenire un decesso per tumore si dovrebbero sottoporre allo screening 1410 uomini e altri 48 dovrebbero essere trattati. La diminuzione del 20% c'è ma, si sottolinea, è associata a un alto rischio di sovradiagnosi, cioè diagnosi in uomini che potrebbero non presentare sintomi clinici per il resto della vita. Soprattutto, si sono combinati dati di paesi con protocolli di screening diversi, e il beneficio era ristretto al gruppo centrale con risultati preliminari e inconcludenti per altri gruppi d'età. La sovradiagnosi e il sovratrattamento, si ammette, sono probabilmente la maggiore limitazione dello screening per il ca prostatico e i programmi dovrebbero tener conto di questo come della qualità di vita dei pazienti, dei costi e della costo-efficacia; inoltre va determinato l'intervallo ottimale del test in relazione al risultato del primo e a esiti negativi della biopsia.

Contano valori soglia, età, trattamenti


Lo studio PLCO, iniziato nel 1993, coinvolge invece 76.693 uomini statunitensi, di cui metà sottoposti a screening annuale con PSA-test per sei anni ed esame rettale per quattro anni, e metà soggetti controllo sottoposti talvolta a screening in base a raccomandazioni diverse. Per le Società degli urologi e degli oncologi per esempio test ed esame devono iniziare a 50 anni e prima se c'è alto rischio per il tumore; per altri organismi l'inizio dipende da un algoritmo con età, familiarità, appartenenza etnica, o lo screening è consigliato ma fino ai 75 anni (nello studio comunque dopo sei anni circa metà dei soggetti controllo si sottoponeva a screening). Dopo sette anni di follow-up l'incidenza del tumore prostatico è stata di 116 per 10.000 persone-anno negli screenati e di 95 negli altri; la mortalità è risultata pari a 2 per 10.000 persone-anno nei primi e a 1,7 nei secondi, una differenza quindi molto bassa, verificata anche nel follow-up a dieci anni. Gli autori del PLCO avanzano alcune possibili spiegazioni di questa differenza sulla mortalità tra i due studi. Prima di tutto il valore soglia di PSA per eseguire la biopsia nel PLCO è 4 ng/ml contro i 3 ng/ml dell'ERSPC, che non identifica necessariamente i tumori più aggressivi, e aumenta le sovradiagnosi. Poi il test nell'ERSPC era ogni quattro anni e nel PLCO annuale, e in molti centri europei l'esame rettale calava drasticamente dopo i primi due anni, mentre in quelli americani era annuale; inoltre gli europei studiati erano essenzialmente bianchi e quelli americani invece includevano minoranze che possono avere influito. Ancora, dicono gli autori del PLCO, il follow-up potrebbe non essere abbastanza lungo, e bisogna tener conto del miglioramento della terapia nel periodo del trial, che potrebbe essere anche di tipo più aggressivo negli Stati Uniti. I risultati, aggiungono ancora, supportano la raccomandazione contro lo screening in uomini oltre i 75 anni. Il follow-up del PLCO raggiungerà comunque i tredici anni e a quel punto si potranno tirare le conclusioni.

Elettra Vecchia



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