Il farmaco pesa, l'età pure

15 marzo 2006
Aggiornamenti e focus

Il farmaco pesa, l'età pure



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Tra i fattori importanti nello sviluppo del carcinoma prostatico rientrano gli ormoni androgeni, in primis il testosterone, in grado di contribuire all'insorgenza e alla proliferazione della massa tumorale. Non a caso, una delle strategie di intervento mira a ridurre la produzione androgenica, che si ottiene o con la castrazione chirurgica, tecnicamente orchiectomia, cioè l'asportazione di uno o di entrambi i testicoli, oppure con farmaci antiandrogenici. Gli effetti sull'attività sessuale sono intuibili, e simili in entrambi i casi, ma solitamente si scelgono per le forme avanzate e per pazienti anziani che, spesso, non hanno una vita sessuale attiva. Tuttavia la deprivazione androgenica offre il vantaggio di essere reversibile e non comporta il carico psicologico di un intervento chirurgico definitivo. Spesso, quindi, viene anche adottata come terapia adiuvante della radioterapia. Ma non senza effetti collaterali.

Il rischio c'è...


E' stato infatti osservato che nei soggetti curati con questo metodo si presentano disturbi dell'emotività, affaticamento, difficoltà di memoria e depressione che, nel complesso, sono state definite sindrome da deprivazione androgenica. I bassi livelli di testosterone sono anche associati a scarsa funzionalità cognitiva e difetti della memoria verbale e spaziale. Questi aspetti sono stati osservati e valutati in vari studi sulla popolazione maschile ma non sempre sugli anziani, per i quali è più frequente la scelta della terapia ormonale. Ma non mancano ricerche che attribuiscono alla malattia stessa alcuni di questi sintomi o, addirittura, li attribuiscono a comorbidità, cioè ad altre malattie non proprio rare in soggetti anziani. A questa stessa conclusione sono giunti anche gli autori di un lavoro comparso su Archives of Internal Medicine. L'obiettivo era proprio la valutazione del rischio di sviluppare i sintomi della sindrome in una popolazione anziana di ultrasessantacinquenni. Il vantaggio, rispetto ai precedenti studi, era poter fare affidamento su un campione molto ampio "preso in prestito" da un progetto di sorveglianza epidemiologica del Medicare, uno dei sistemi sanitari statunitensi, chiamato SEER (Surveillance, Epidemiology and End-Results). L'ordine di grandezza è di oltre 50 mila soggetti con il tumore alla prostata e altrettanti soggetti sani, usati come controllo. I pazienti malati in terapia ormonale, circa 16 mila, sono stati separati da quelli che non la facevano. I primi avevano in media 75 anni, con un 27,6% di ultraottantenni, gli altri avevano in media 72 anni e gli ultraottantenni erano il 13,7%.
Il periodo di monitoraggio dopo la diagnosi di carcinoma prostatico variava da 6 a 60 mesi (5 anni), durante i quali i sintomi depressivi colpirono in percentuale simile soggetti sani o malati ma non in terapia ormonale (9,6% e 9,5%). La quota aumentava al 12,1% in caso di deprivazione androgenica. La frequenza di disturbi cognitivi era più alta con la terapia (13,9%), intermedia nei malati senza la terapia (10,2%) e più bassa nei soggetti sani (7,9%). Lo stesso andamento si osservava per i disturbi mentali strutturali.
Ragionando in termini di rischio relativo, nei pazienti in cura rispetto a quelli non in cura, questo aumentava a 1,37 per i sintomi depressivi, a 1,44 per quelli cognitivi a 1,57 per quelli strutturali.

...ma è relativo


Tuttavia depurando i dati da variabili potenzialmente confondenti, come lo stadio di avanzamento della malattia e la comorbidità, cioè a parità di condizioni, il rischio relativo si riduceva e in alcuni casi scompariva: 1,08, 0.99 e 1,17, rispettivamente. Anche considerando solo i pazienti meno gravi, cioè con il carcinoma in stadio precoce, con un basso indice di comorbidità e con meno di 80 anni alla diagnosi, il rischio relativo dei sintomi si abbassava depurando i dati. Infine, confrontando i malati in terapia ormonale con quelli sani, il rischio relativo di sviluppare i sintomi psichiatrici era di 1,13 per la depressione e di 1,26 per i disturbi strutturali.
L'aumento di rischio senza dubbio c'è, ma gli autori osservano che la terapia viene proposta a soggetti più anziani, che hanno la patologia in stadio più avanzato e con una maggiore presenza di altre malattie, per esempio legate all'invecchiamento. Quindi il rischio residuo, quello che si può attribuire direttamente al trattamento, non è poi così elevato. Va comunque preso in considerazione nella scelta dell'opzione terapeutica, ma senza dimenticare che a una certa età, con o senza blocco androgenico, certi sintomi e certi disturbi arrivano lo stesso.

Simona Zazzetta



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