Gente allegra...

10 marzo 2006
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Buone notizie: con un po’ di ottimismo la salute (almeno del cuore) migliora. O giù di lì. Questa è una delle tante conclusioni che hanno origine da uno studio condotto in Olanda, che faceva parte di uno più grande (noto come “Seven countries” perché condotto in sette paesi) che ha esaminato il rapporto tra fattori di rischio biologici e mortalità per malattie cardiovascolari. Anche se il campione non è enorme, si tratta di uno studio prospettico, che cioè ha seguito nel tempo le persone coinvolte e non ha semplicemente chiesto loro ”nel 1985 era ottimista?”, domanda alla quale l’unica risposta sensata è “e chi si ricorda?”.
Lo studio è cominciato negli anni '60, coinvolgendo uomini di mezza età. Nel 1985, degli oltre 500 ancora in vita, ne sono stati scelti e riesaminati 375. A questi sono stati aggiunti altri 711 uomini della stessa età, ma che non avevano partecipato allo studio originale, per un totale di oltre 1200. L’esame consisteva in una valutazione fisica (pressione arteriosa, livello di colesterolo totale e HDL, indice di massa corporea, eventuali terapie antipertensive) e psichiatrica, che verteva sulla depressione. Per valutare l’atteggiamento ottimistico, alle persone venivano sottoposte quattro affermazioni, per le quali si doveva esprimere il proprio accordo. Le frasi erano: “Mi aspetto ancora molto dalla vita”, “Non penso a quello che mi riserva il futuro”, “I giorni sembrano passare lentamente”; “Sono ancora pieno di progetti”. Infine si è chiesto di esprimere un giudizio sul proprio stato di salute (possibili risposte: “sto bene”; “sto abbastanza bene”, “così così, non sto bene”). La valutazione è stata condotta nel 1985, nel 1990, nel 1995 e nel 2000.

Rischio dimezzato, ma perché?


All’inizio dello studio, l’atteggiamento ottimistico era più accentuato tra le persone meno anziane, meno interessate da sintomi depressivi, che si sentivano meglio in salute e facevano una maggiore attività fisica. Tra gli ottimisti, poi, era più facile trovare livelli di colesterolo HDL accettabili. Dal punto di vista delle caratteristiche sociali, erano più ottimisti coloro che non vivevano soli e che avevano un più alto livello di istruzione. Con il tempo, il livello di ottimismo tende a scendere, ad analizzare i dati, ma le correlazioni si mantengono ugualmente. Nel corso dello studio, sono morte 373 persone del campione originale - un dato non stupefacente vista l’età - la metà delle quali a causa di una malattia cardiovascolare. Comparando i decessi con i dati sull’ottimismo, il gruppo delle persone più ottimiste aveva un rischio ridotto di morire di infarto o per altra malattia cardiaca inferiore del 55% rispetto alle meno ottimiste. Se si considerano anche gli altri fattori di rischio classici, e la presenza di depressione, l’effetto protettivo dell’ottimismo si attenua un po’, ma resta.
La spiegazione dell’effetto non è semplice. E’ vero che si poteva essere ottimisti pur con la pressione alle stelle, ma è anche vero che l’ottimismo correlava con alcune situazioni sociali (per esempio il non vivere da soli) che possono avere una funzione di mediatore dell’effetto; un’altra, per esempio, è l’attività fisica. Più diretta è la spiegazione che vede nell’ottimismo una spinta a rispettare le prescrizioni (visto che ci si aspetta in partenza qualcosa di positivo), quindi a curarsi meglio. Ottimismo significa anche porsi obiettivi, per esempio quello di vivere in modo più sano. C’anche un’ipotesi contraria: lo scarso ottimismo potrebbe essere causato anche da meccanismi biologici, come l’attività delle piastrine o i disturbi del sistema nervoso autonomo, negativi anche per il sistema cardiovascolare, che questo studio non ha preso in considerazione. Però resta una buona notizia, da prendere con ottimismo.

Maurizio Imperiali



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