L'emofilia si può curare

22 aprile 2005
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L'emofilia si può curare



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Colpisce un neonato maschio su 5 mila e affligge oltre 5 mila italiani, ma in tutto il mondo i malati sono più di 400 mila. Si tratta dell'emofilia, una patologia rara ed ereditaria, legata a un difetto genetico che provoca gravi emorragie. Ma come si manifesta? Chi ne soffre non ha, o non ha in quantità sufficienti, i fattori VIII e IX della coagulazione del sangue, col rischio di emorragie interne gravi e di complicazioni articolari invalidanti. Basti pensare che il sangue degli emofilici prelevato con una siringa rimane liquido anche per un'ora, o più, prima di coagulare. Un tempo gli emofilici gravi erano condannati a una vita breve e densa di sofferenze, funestata da continue emorragie causate da traumi banali o anche spontanee. Le perdite di sangue potevano colpire qualsiasi parte del corpo, ma erano assai frequenti quelle delle articolazioni che causavano, col ripetersi dei sanguinamenti, il blocco dei movimenti con conseguenti gravi invalidità. E oggi? Le cose sono completamente cambiate. Per capire in che modo ne abbiamo parlato con Francesco Baudo, Direttore della Struttura Semplice di Trombosi ed Emostasi dell'Ospedale Niguarda di Milano.

I passi avanti


"Dagli anni '60, risponde Baudo, la terapia dell'emofilia ha attraversato momenti di luci e ombre. Oggi, però, le cure sono efficaci e sicure, tanto che i malati possono vivere normalmente. Negli episodi di emorragia si somministrano i fattori di coagulazione mancanti prodotti grazie alla moderna ingegneria genetica". Negli anni '80 è stato attraversato, probabilmente, il periodo più buio, quando 3500 italiani hanno ricevuto trasfusioni di sangue infetto con conseguenze tragiche: quasi tutti hanno contratto il virus dell'epatite C e 820 l'HIV, morendo di Aids nella metà dei casi. Il problema della sieroconversione oggi però è stato risolto. E' vero? "Si, oggi la sicurezza e l'efficacia della terapia dell'emofilia sono provate". Ma come? "Grazie all'utilizzo di fattori della coagulazione ottenuti da DNA ricombinante e non derivati da plasma umano e con l'applicazione di metodi virucidici ai concentrati plasmatici di fattore VIII e IX". Cioè? "L'inattivazione del virus con il calore o tecniche che distruggono il virus nel plasma", risponde l'ematologo milanese. "In questo modo sono state ampiamente ridotte sieroconversioni a malattie virali, in particolare all'epatite e alla malattia da HIV. Un'infezione scoperta, peraltro, tardivamente. Andando a esaminare retrospettivamente campioni di sangue conservati da prima del 1985 l'infezione c'era già. Ma non la si conosceva". Un altro segno dei tempi è che i malati adesso possono vivere normalmente e perfino fare sport a livello agonistico. Una gioia prima negata. Perché? "E' evidente, precisa Baudo, che la carenza di fattori della coagulazione porta a un rischio emorragico, più spiccato per chi fa sport. Episodi sempre meno frequenti grazie a una duplice modalità d'intervento. Da una parte la possibilità di intervenire quando c'è l'episodio, un intervento che è limitato nel tempo. Ma in particolare è sempre più frequente il ricorso alla profilassi. Si tratta di somministrare preventivamente due o tre volte il fattore mancante per avere quantità di fattore VIII e IX sufficienti a impedire emorragie spontanee. Si tratta di una modalità sperimentata diffusamente nei bambini, ma progressivamente attuata con successo anche con gli adulti". E per il futuro?

Prospettive future


Si parla di terapia genica. E' una strada praticabile? "E' una prospettiva lontana. Si tratta di rimpiazzare il gene difettoso tramite un vettore virale. In genere si posiziona nel fegato, che si occupa della sintesi, ma il trasferimento per il momento è di breve durata. In più ci sono stati episodi di leucemia nei soggetti immunodepressi. Ci sono ancora problemi da superare, perciò". Qualche passo in avanti però si sta facendo e lo conferma uno studio pubblicato su Pnas nel quale la terapia genica si è dimostrata efficace nei test animali. E oltre alla terapia genica? "Una possibilità è quella di prolungare l'effetto del fattore VIII agendo sulla sua emivita (il tempo che impiega una sostanza a scendere alla metà della quantità inizialmente somministrata). Attualmente è di 12 ore, l'auspicio è di arrivare fino a una settimana senza che si degradi in vivo. Un'altra strategia è quella della somministrazione per bocca che sicuramente semplificherebbe la terapia. Infine" conclude l'ematologo "si punta ad aumentare la resa dei fattori VIII e IX contenuti nel plasma, attualmente da un litro di plasma se ne ricava il 10%. Diventerebbe così possibile abbattere il prezzo: va detto, infatti, che il costo sociale della malattia è considerevole. Lo è ancora di più nel Terzo mondo dove non è così diffusa, ma è mortale". La ricerca, è evidente, non si ferma e nuove prospettive terapeutiche si profilano dietro l'angolo.

Marco Malagutti



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