L'HIV cambia strada

20 giugno 2008
Aggiornamenti e focus

L'HIV cambia strada



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Gli studi di coorte sono uno strumento importantissimo perché forniscono informazioni differenti, e spesso fondamentali per l'attività di cura e prevenzione, che non sono possibili negli studi clinici randomizzati, nei quali si arruola una popolazione selezionata. Se oggi si sa tanto e si può fare tanto in tema di aterosclesrosi e infarto, lo si deve allo studio di Framingham, uno studio, appunto di coorte, che ha seguito una popolazione per decenni. Lo stesso discorso vale per uno studio italiano, battezzato ICONA, che da dieci anni (è partito nel 1997) segue una coorte di oltre 6000 persone sieropositive da HIV in carico ai centri specialistici di tutta Italia. E' un'opera fondamentale, come a ricordato a Roma il 18 giugno Mauro Moroni, infettivologo dell'Università di Milano e uno dei primi specialisti italiani a occuparsi della malattia, perché in effetti l'infezione assume caratteristiche differenti nelle diverse aree. "Mentre in Italia la diffusione è passata soprattutto tra i tossicodipendenti che usavano droghe iniettive, e quindi a causa dello scambio di siringhe, nel Nord Europa la trasmissione è avvenuta soprattutto per via sessuale. Perché nei paesi mediterranei l'assunzione di droghe è un fatto collettivo e nei paesi nordici un fatto individuale". Insomma, come la polmonite conosce prevalenze diverse nelle fasce della popolazione, così accade anche per l'HIV. E come questo, tanti altri dati sono emersi in questi 10 anni di studi, tanto che nel 2007 ICONA è divenuto una fondazione, che si è assunta il non facile compito di continuare il monitoraggio dell'HIV in Italia.

L'evoluzione della trasmissione


Molti i dati raccolti, è evidente, che testimoniano di un'evoluzione della situazione italiana che ha aspetti positivi e altri negativi. E' un aspetto positivo, per esempio, che grazie ai farmaci antiretrovirali in combinazione , la HAART, la percentuale di decessi per AIDS conclamato nella coorte di soggetti trattati si è decisamente ridotta; d'altra parte ha sottolineato il professor Andrea Antinori, Direttore Dipartimento Clinico Istituto Nazionale Malattie Infettive "L. Spallanzani" di Roma è rimasta stabile la percentuale di interruzioni del trattamento, da un terzo degli anni immediatamente precedenti al 40% circa nel triennio 2003-2005. "Le principali cause di tali interruzioni sono i problemi di intolleranza e tossicità della terapia (60%) e la mancata aderenza al regime terapeutico (24%)". Ma soprattutto, ha spiegato Antinori "dai dati epidemiologici della coorte, nell'ultimo triennio considerato sappiamo essere in aumento la proporzione di pazienti che iniziano il trattamento in condizioni avanzate di malattia, i cosiddetti "naive avanzati" o "late presenters", ovvero quei soggetti che scoprono il loro stato di infezione tardi, quando già presentano un grave quadro di immunodeficienza o i sintomi della malattia. In queste condizioni la tollerabilità alla terapia è ridotta, come pure inferiore è l'aderenza al trattamento". E restano poi i problemi di tollerabilità a lungo termine. Il nodo sembra essere ancora il basso numero di test eseguiti. "In Francia" ha esemplificato Moroni "il 50% della popolazione lo ha eseguito. In Italia non si può nemmeno dire quanti test siano stati eseguiti. "A oggi il 32,3% delle persone viene a sapere della sua condizione quando il sistema immunitario è già gravemente compromesso o si è già manifestato l'AIDS" ha sintetizzato Enrico Girardi, direttore del Dipartimento Epidemiologia dell'Istituto nazionale malattie infettive. Una situazione che ha due conseguenze: la prima è soggettiva: il paziente ha meno possibilità di essere curato in modo efficace, la seconda è che può a sua volta contagiare inconsapevolmente. E questo è ancora più vero dal momento che ormai, come ha spiegato la professoressa Antonella D'Arminio Monforte, ordinario di malattie infettive e segretario scientifico della Fondazione Icona, ormai la trasmissione avviene prevalentemente per via sessuale e l'età media si è molto alzata, con le decadi dei 40 e 50 anni a costituire il grosso dell'epidemia.

Il futuro è il controllo


Ma nell'assumere caratteristiche nuove, la malattia conosce anche una importante battuta d'arresto. "Oggi con i trattamenti disponibili possiamo prevedere che l'infezione da HIV possa essere neutralizzata, cioè arrivare ad azzerare la viremia (presenza di virus nel sangue), il che non significa eliminare l'HIV dall'organismo, ma rendere possibile una vita normale a chi è stato infettato, come accade per molte altre infezioni virali non guaribili in senso stretto" ha spiegato Adriano Lazzarin direttore del Dipartimento malattie infettive dell'IRCCS San Raffaele di Milano. "E molto possiamo ancora aspettarci dai trattamenti in studio. Oggi abbiamo enormi conoscenze sui meccanismi d'azione dell'HIV e per adesso nelle terapie abbiamo sfruttato soltanto uno di questi bersagli: la transcrittasi inversa". Serve quindi un salto, possibile, della ricerca clinica "Ma anche una valutazione adeguata dei bisogni sanitari, delle caratteristiche territoriali dell'infezione" ha concluso Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani. "E anche questa è una importante funzione svolta dalla Fondazione Icona".

Maurizio Imperiali



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