Parlare malgrado l'Alzheimer

16 settembre 2005
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Parlare malgrado l'Alzheimer



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La malattia di Alzheimer conosce due aspetti fondamentali, presenti in tutte le malattie degenerative ma qui particolarmente esasperati. Da una parte la biologia della malattia: fattori di rischio, meccanismi e, logicamente, possibilità di trattamento. Dall'altra, ed è la parte meno discussa, le necessità assistenziali, rese spesso drammatiche dalla difficoltà di avere un rapporto "normale" con il malato. In questo scenario si inserisce un diverso approccio al paziente affetto da Alzheimer, la terapia conversazionale, oggetto di un libro curato da Pietro Vigorelli, medico e psicoterapeuta responsabile dell'Unità Operativa di Medicina riabilitativa dell'ospedale San Carlo di Milano. Un libro che è stato presentato a Milano lo scorso 7 ottobre.

Un diverso senso della parole


Il conversazionalismo è un metodo sviluppato dal medico e psicoanalista Giampaolo Lai. Con un'estrema semplificazione, alla base del metodo c'è la constatazione che negli scambi linguistici vi sono due livelli. Il primo, immediatamente presente a tutti è quello che ha il fine di far passare tra gli interlocutori dei significati: dire "ho fame", piuttosto che "il mio quaderno è rosso" sono esempi banalissimi di questo tipo di scambi. Ma nel linguaggio non c'è solo l'aspetto comunicativo c'è anche quello, appunto conversazionale; qui non si tratta di scambiarsi significati, ma di avere uno scambio felice più o meno felice di parole, nel quale esistono regole diverse da quelle della comunicazione, come rispettare i turni per parlare. L'applicazione del conversazionalismo all'Alzheimer parte dalla constatazione che mentre il decadimento della funzione comunicativa del paziente procede a una certa velocità, quello della capacità di conversare è più lento. L'intuizione di Vigorelli è che questo decadimento della comunicazione provoca frustrazione sia nel malato sia in chi lo assiste e che questo genera un progressivo abbandono del linguaggio verbale, che a sua volta produce un danno ulteriore al paziente. Vigorelli distingue dunque tra un danno diretto della malattia e uno che deriva dal cattivo rapporto tra il malato e il suo ambiente. Questo cattivo rapporto dipende in primo luogo dalla progressiva chiusura del paziente causata dalla frustrazione di non riuscire a farsi capire. Invece, poiché la capacità di conversare si mantiene più a lungo, è su questa che si deve puntare per mantenere aperto il canale tra il paziente e l'ambiente, ascoltando anche quando non si capisce, cercando di intuire il ritmo, la tonalità del racconto che il paziente fa e cercando di restituirglielo.

Un'esperienza sul campo


Del resto, la strada intrapresa dal medico milanese parte da una constatazione empirica sul campo. Per esempio nelle occasioni di emergenza, quando il paziente urlava nella notte, scacciando le infermiere, allora, come spiega Vigorelli: "Chiedevo di lasciarmi solo col paziente...lo ascoltavo cercando di capire qualcosa nel caos delle sue parole, poi, quando giungeva una pausa, dopo un breve silenzio, cercavo di restituirgli con le mie parole quello che mi sembrava di aver capito o intuito. Il paziente si acquietava".
E' ovvio che questo metodo incentrato sulla parola è una sorta di universo parallelo rispetto alla terapia farmacologica o quella psicologica, ma può generare un ponte tra questi universi, contribuendo a mantenere al paziente demente le caratteristiche della persona e, come si diceva, ridurre il peso esercitato dal deteriorarsi del rapporto con gli altri.
Bisogna anche dire che in effetti la terapia conversazionale è più profonda e complessa di quanto spiegato qui, e anche più ricca. Un po' come in altre malattie, anche organiche, mira a salvare la salute residua e nella sostanziale impasse delle altre terapie è un obiettivo fondamentale. Proprio per illustrare e diffondere la terapia conversazionale, Pietro Vigorelli ha promosso un sito web:
www.formalzheimer.it

Maurizio Imperiali



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