La percezione del pericolo

30 giugno 2010
Interviste

La percezione del pericolo



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Ogni giorno ci si trova ad affrontare svariate situazioni che possono costituire un pericolo reale o che, semplicemente, provocano fobia. Poiché sono le scienze cognitive a studiare i meccanismi che guidano la percezione soggettiva del rischio, per fare un po' di chiarezza sul tema, Dica33 ha intervistato Laura Savadori, ricercatrice all'Università di Trento e autrice del libro "Nuovi rischi, vecchie paure".

Quali sono, dal punto di vista cognitivo gli elementi funzionali che ci aiutano a percepire e analizzare un rischio?
Per semplificare possiamo dire che la percezione del rischio viene elaborata da due aree del cervello: dalle strutture limbiche, prevalentemente l'amigdala, e dalle strutture più corticali, come i lobi frontali. Entrambe sono deputate a fornire una risposta emotiva immediata e impulsiva di attrazione e rifiuto. Le seconde, però, mediano la risposta sulla base di considerazioni più analitiche tratte dalle informazioni di cui disponiamo. Tuttavia, quando i due sistemi sono in competizione, il sistema limbico è in vantaggio, poiché le risposte fornite sono più veloci, emotive e "radicate".

Questo vuol dire che prevalgono gli aspetti irrazionali?
Spesso si osserva come il rischio percepito si discosti dalla realtà. Le persone mostrano paura per alcune sostanze, comportamenti o tecnologie che non comportano pericoli reali, mentre mostrano scarsa considerazione per altri elementi e situazioni che meriterebbero più precauzione. Questo comportamento "irrazionale" può essere spiegato dell'evoluzione del concetto di paura: il nostro sistema mentale si è adattato ai nuovi pericoli, ben diversi da quelli che affliggevano i nostri avi, quali, per esempio timore dei predatori, di rischi meteorologici o di siccità. I pericoli a cui dobbiamo rispondere, spesso, sono poco manifesti, come l'accumulo di sostanze cancerogene, e a volte vengono addirittura associati a modelli edonistici e positivi, bere alcolici, guidare automobili veloci. Queste associazioni possono trarre in inganno il sistema mentale primitivo e portare gli individui a valutare come poco pericolosi alcuni rischi oggettivi.

La percezione del rischio cambia con l'età?
L'età in cui i giovani sono a maggior rischio è la tarda adolescenza o la prima giovinezza, ovvero verso i 20 anni. È anche vero, tuttavia, che alcuni di noi scoprono il cosiddetto brivido del pericolo solo in tarda età, intorno ai 70 anni. Sport estremi, ma anche la ricerca di sensazioni forti, quali l'adulterio e alcuni comportamenti, sono probabilmente l'espressione della stessa tendenza che ha permesso di avere successo nella vita.

Che cosa suggerirebbe ai genitori?
Non devono cercare di sopprimere indiscriminatamente la naturale tendenza al rischio dei propri figli, ma veicolare il più possibile questa spinta vitale su attività che non siano autolesioniste o antisociali.



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