Adhd, distratti e iperattivi protagonisti di un film documentario

23 giugno 2014
Interviste

Adhd, distratti e iperattivi protagonisti di un film documentario



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Adhd Rush Hours è un documentario di 75 minuti, in uscita nelle sale cinematografiche italiane il 26 giugno prossimo. A girarlo è stata la regista, Stella Savino, con la consulenza scientifica di Stefano Canali, ricercatore in Storia della scienza e bioetica presso la Scuola internazionale superiore di studi avanzati (Sissa) di Trieste. Il tema è dei più controversi: la diagnosi e la terapia (e, per certi versi, la stessa esistenza) del disturbo da deficit di attenzione e iperattività, una patologia che è inserita nel Dsm (il manuale che raggruppa le malattie della mente ufficialmente riconosciute) fin dagli anni '80 ma che ancora suscita perplessità e accuse di sovra diagnosi, specie negli Stati Uniti. Abbiamo sentito il professor Canali che ci ha spiegato come mai uno storico della scienza è stato coinvolto nella stesura di un documentario su un disturbo psichiatrico dell'età evolutiva.

Che cosa l'ha attirata in questa impresa cinematografica?
«Il tema delle diagnosi psichiatriche e di come viene identificata una malattia della mente, secondo quali criteri e con quale apporto scientifico, è uno dei miei principali interessi di ricerca. In questo caso, vi sono diversi elementi interessanti per uno storico della scienza e in particolare per un bioeticista. Per esempio, vi è il fatto che la diagnosi di iperattività, che si basa su un elenco di sintomi come disattenzione, difficoltà a concentrarsi, incapacità di rispettare i turni in una conversazione eccetera, è spesso determinata dall'orientamento dello specialista che si consulta, come il documentario mostra molto bene: negli Stati Uniti si stima che circa un bambino su dieci abbia ricevuto una diagnosi di Adhd, mentre in Italia le diagnosi sono pochissime. C'è quindi un elemento culturale che influisce nella definizione di malattia».

Intende dire che dipende dall'ambiente in cui il bambino o il ragazzo vive?
«In un certo senso sì: una scuola tutta incentrata sulla performance e sui risultati come quella americana mette subito in risalto comportamenti diversi da quelli della media. Ma essere diversi dalla media dei bambini non vuol dire necessariamente essere malati. È una questione di quantità e di impatto dei comportamenti sulla vita del bambino e del suo gruppo sociale: se la difficoltà a concentrarsi compromette la tua vita scolastica e la vita di relazione, allora va presa in carico, in un modo o nell'altro. Ma non è detto che il modo migliore sia quello farmacologico».

Il film sembra molto critico nei confronti dei farmaci per l'Adhd, e in particolare nei confronti del metilfenidato, che è un analogo delle amfetamine. Lei cosa ne pensa?
«Credo che il documentario cerchi soprattutto di essere equilibrato, dando informazioni sia a favore sia contro l'uso del farmaco. Per esempio, vi sono diverse storie di ragazzi che si trovano bene con la terapia farmacologica e di medici che sostengono che, in alcuni casi, è meglio dare un farmaco che lasciare il bambino senza trattamento. In altri casi, però, sono gli stessi genitori a preferire altre strategie, come la terapia comportamentale, che si basa su una sorta di "rieducazione" del bambino a comportamenti che non interferiscano con la sua vita sociale.

Nel film si vede una di queste scuole comportamentali che ha sede negli Usa: è un mondo molto rigido, basato su meccanismi di premio e punizione in base al comportamento che il bambino mantiene nel corso della giornata. Eppure la mamma il cui figlio frequenta questo corso lo preferisce ai farmaci, perché sente che questi ultimi interferiscono troppo con la personalità del figlio. In pratica quel che il documentario vuole mostrare è quanto c'è di arbitrario sia nella diagnosi sia nella cura di un disturbo di cui non sono ancora del tutto note le possibili basi biologiche ma che ha un impatto importante sull'esistenza di questi ragazzi».



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