I farmaci per la pressione non funzionano ad alta quota

04 settembre 2014
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I farmaci per la pressione non funzionano ad alta quota



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I livelli di pressione arteriosa aumentano andando ad alta quota per la riduzione della disponibilità di ossigeno che si verifica e l'effetto di farmaci anti-ipertensivi rimane valido fino a 3.400 metri di altitudine, ma non c'è più a 5.400 metri. I dati sono stati pubblicati sulla rivista European heart journal e sono il risultato di una ricerca dell'Istituto Auxologico Italiano e dell'Università di Milano-Bicocca nella quale sono stati coinvolti volontari sani, che vivevano, lavoravano e praticavano sport a livello del mare.

Lo scopo era verificare come un'esposizione acuta e prolungata a una ridotta disponibilità di ossigeno influenzasse la pressione arteriosa e altre funzioni cardiorespiratorie. Per rispondere al quesito, 13 dei 15 autori insieme a 47 volontari hanno raggiunto 5.400 metri di altitudine sul livello del mare (con tappe intermedie), arrivando al Campo Base Sud (lato Nepalese) del monte Everest. La pressione è stata monitorata per 24 ore a diverse altitudini e i volontari potevano ricevere in modo casuale o un farmaco per il controllo della pressione o un placebo.

Ecco le conclusioni: la pressione aumentava significativamente in quota e la terapia con il farmaco conteneva l'aumento ma solo fino a determinate quote. «Il nostro studio fornisce la prima dimostrazione sistematica che con l'aumentare della quota la pressione arteriosa aumenta progressivamente e in modo marcato. Ma non è tutto qui: questo aumento si verifica immediatamente al raggiungimento dell'alta quota, perdura durante la permanenza prolungata ad altezze elevate ed è evidente durante tutto l'arco delle 24 ore, ma con un incremento maggiore nelle ore notturne. E di conseguenza si attenua la fisiologica caduta notturna della pressione. Lo studio ha dimostrato anche che queste variazioni di pressione sono reversibili e la pressione si normalizza una volta ritornati al livello del mare.

Inoltre, l'aumento della pressione sistolica (la "massima") al Campo Base dell'Everest è stato maggiore in persone di età superiore ai 50 anni rispetto ai più giovani» spiega Gianfranco Parati, coordinatore del progetto, professore ordinario di Malattie dell'apparato cardiovascolare dell'Università di Milano-Bicocca e direttore del Laboratorio di ricerche cardiologiche dell'Istituto Auxologico Italiano.

I risultati non sono utili solo per gli alpinisti provetti che raggiungono l'alta quota, come spiega ancora Parati: «Questi dati possono avere implicazioni utili per la cura di malattie croniche associate ad uno stato di carenza di ossigeno come lo scompenso cardiaco (ove si osserva una periodica interruzione del respiro), la riacutizzazione della broncopneumopatia cronica ostruttiva, le apnee ostruttive nel sonno o l'obesità grave».



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