Donne sull'orlo di una crisi cardiaca

10 febbraio 2006
Aggiornamenti e focus

Donne sull'orlo di una crisi cardiaca



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“Ogni anno le malattie cardiovascolari uccidono circa 120 mila italiane. In più, queste patologie nel mondo Occidentale rappresentano la prima causa di morte al femminile, più del triplo delle vittime di tutti i tumori messi insieme”. A parlare così è Maria Grazia Modena, la prima presidente donna della Società italiana di cardiologia (Sic). E’ un quadro preoccupante anche perché la malattia cardiovascolare viene ancora considerata un problema eminentemente maschile e la prevenzione al femminile è ancora molto indietro. A questa situazione si aggiungono i risultati di uno studio anticipato sulla rivista Circulation. Le analisi diagnostiche comunemente usate per individuare diverse malattie cardiache spesso non individuano le patologie femminili. Si spiegherebbe così perché le donne soccombano più degli uomini ai disturbi cardiovascolari. Ma quali sono le differenze tra uomini e donne per quel che concerne la malattia cardiovascolare? Lo abbiamo chiesto alla presidente della Sic.

Differenze di genere


“La principale differenza la fanno gli ormoni femminili” risponde la Modena. “Nella fase in cui gli estrogeni calano drasticamente, attorno ai cinquant’anni, cessa anche una sorta di effetto protettivo. Si spiega così perché gli episodi cardiovascolari si manifestino mediamente in età più avanzata nelle donne. Del resto” aggiunge la cardiologa “è la fase in cui comincia tutto”. Cioè? “Malattie tipiche delle donne come l’artrite reumatoide, l’osteoporosi, il lupus, tutte legate a processi infiammatori. Le ragioni di questo fenomeno non sono ancora del tutto chiare ma l’aspetto ormonale gioca un ruolo determinante”. E i fattori di rischio? Sono gli stessi? “Complessivamente sì” risponde la Modena “ma con un andamento diverso tra i due sessi. Intendo ipertensione, ipercolesterolemia, diabete”. E le differenze? “Il diabete, per esempio, ha una casistica peggiore nelle donne. E l’ipertensione”, aggiunge la presidente della Sic “ che nelle donne è spesso sottostimata, pur rappresentando una malattia importante, con l’aggravante che spesso è più resistente ai farmaci”.

Di chi è la colpa?


Ma le pazienti hanno qualche responsabilità rispetto a questa situazione? “Sicuramente c’è una generale sottovalutazione e le pazienti ne sono corresponsabili. Ma anche i medici hanno le loro responsabilità. L’esito è che le pazienti non fanno nè richiedono gli esami nei modi e nei tempi giusti. E’ un problema sociale e culturale, sul quale ha sicuramente interferito che le donne siano più longeve e quindi, si presume, più forti. Fino a oggi così le indagini sulle donne erano solo di tipo ginecologico”. E anche i trial clinici sono prevalentemente al maschile? “Sono esclusivamente al maschile” sottolinea convinta la cardiologa. “Basti pensare che persino il primo studio clinico ufficiale sulla terapia ormonale è stato condotto sugli uomini. Un problema generale che riguarda tutta la ricerca mondiale. I trial americani, per esempio, sono spesso condotti sui veterani di guerra. E quando sono coinvolte anche pazienti donne il numero è sempre esiguo, le candidate sono poche e si genera il cosiddetto “bias” nella ricerca, un vizio procedurale si potrebbe dire, a causa del campione insufficiente. Ma le cose stanno cambiando e la svolta viene dagli istituti americani come i National Institutes of Health o la Food and Drug Administration”. In che modo stanno cambiando? “Oggi esiste una norma” risponde la Modena “in base alla quale a uno studio clinico devono partecipare donne almeno per il 25%, non di meno. Del resto è inutile uomini e donne sono diversi e le differenze vanno studiate”. Quali le differenze più eclatanti? “A tutti i livelli: biologiche, fisiche e ormonali. Basti pensare alla reazione ai farmaci che è completamente diversa. I Ca antagonisti danno gonfiori alle gambe spesso nelle donne, non negli uomini, o ancora i vasi sono più piccoli e questo fatto rende molto più complicato per un cardiochirurgo l’intervento chirurgico su una donna”.

Poca prevenzione

A questo quadro va aggiunta la scarsa attenzione alla prevenzione, cui secondo una recente indagine è attenta soltanto una donna su tre. E’ vero? “Assolutamente” afferma la presidente della SIC. “La prevenzione è un problema generale, mentre, infatti, la terapia è arrivata a livelli altissimi, sul piano della prevenzione c’è ancora molto da fare”. Ma come prevenire? “Le maniere sono note e valgono sia per gli uomini sia per le donne. Si può riassumere in due aspetti cruciali, poco movimento e troppo fumo. L’obesità è un trend in aumento, in particolare nelle regioni meridionali dove la dieta mediterranea non viene applicata correttamente. Succede così per effetto dei cattivi stili di vita che fattori di rischio come l’ipertensione, in particolare al Nord, e il diabete sono sempre più significativi. In più” aggiunge la Modena “ in menopausa aumenta il colesterolo totale e in particolare quello cattivo LDL. E si riduce la sensibilità all’insulina. Le donne così aumentano di peso e sono più esposte al diabete”. Ma non è solo una questione di alimentazione, vero? “No è anche una questione di attività fisica costante. Non bastano le intense e occasionali sedute in palestra. Bisogna, come del resto indica l’OMS, camminare o correre con regolarità. E’ provato, del resto” conclude la cardiologa “che un’attività costante e non estemporanea riduce il rischio di infarto e ictus del 30%. In più migliora anche l’umore, perciò l’effetto benefico è globale”. Un pericolo ampiamente sottovalutato, perciò, e una preoccupante omologazione delle donne ai vizi maschili. Ma si è ancora in tempo per invertire la tendenza.

Marco Malagutti



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